Chi non ha sentito almeno una volta l’immortale ritornello “Marina, Marina, Marina: ti voglio al più presto sposar…”. Questo è il film che racconta infanzia e giovinezza, dolori e miserie e poi successo travolgente dell’autore di quella canzone (e di altre, meno note). Non a caso un film italo-belga (producono l’italiano cristiano Bortone e, tra i belgi, perfino i mitici fratelli Dardenne): perché Rocco Granata era italianissimo, per la precisione calabrese, ma si trasferì da piccolo con la famiglia in Belgio; dove il padre, che aveva anticipato moglie e figli un paio d’anni prima, lavorò insieme a tanti altri compatrioti come minatore, e dove Rocco divenne un popolarissimo cantante. Non a caso Marina, diretto da Stijn Coninx (che circa vent’anni fa, nel 1993, fu candidato all’Oscar per il modesto Padre Daens: la storia di un prete progressista che si ribellava alla Chiesa cattolica), in Belgio è stato un successo clamoroso nei cinema. Da noi, dove è stato accolto con entusiasmo a novembre 2013 al Festival di Roma (alla presenza sello stesso Granata), rischia di passare inosservato.,Il film ha molti limiti. Perché, come la canzone omonima, punta deciso il pedale sul “popolaresco”, sul sentimento, sull’impossibilità di concepire mezzi toni in una biografia così estrema: la miseria in Italia è nera e costringe ad abbandonare la terra natia, il padre che ha abbandonato la passione per la musica non capisce il figlio che non accetta la dura realtà, gli italiani in Belgio sono accolti con diffidenza, sfruttati e mandati ad ammalarsi se non a morire nelle miniere (inevitabile il riferimento al disastro di Marcinelle del 1956, in cui morirono 262 minatori per la maggior parte italiani); ma Rocco è un ragazzo di bell’aspetto e di buon cuore, che fa breccia nel cuore di una giovane bionda, cui dedicare le canzoni che cerca di portare – barcamenandosi tra il mestiere di meccanico e le prime serate con il suo gruppo – all’attenzione dei discografici. Tra cui “Marina”: anche se in realtà, lì, si parla di una “bella mora”… Ma alla giovane, e a quelli che diventano i suoi numerosissimi fans fiamminghi in Belgio (in rete si trovano video d’epoca, impressionanti, di partecipazioni di Granata a programmi tv), non importano certo i testi ma quelle melodie: semplici, accattivanti, che entrano facilmente nel cuore…,Il tentativo del film di Coninx – che però ha limiti evidenti di confezione e di regia – è dunque lo stesso; stare a livello della materia che racconta, senza inutili intellettualismi o tic da biopic moderno. Con il risultato che, certo, rischia di non trovare un pubblico in sala, nell’ormai sofisticato circuito d’essai cui tutti i piccoli film rischiano di vedersi confinare, anche se poi questo non solo è appunto un film commercialissimo nella sua seconda (o prima, per ambientazione) patria belga ma anche veracemente popolare come concezione. Tanto da sembrare a più riprese un melodramma anni 50 o un musicarello anni 60, come le epoche che racconta. O una delle fiction sbanca audience che si vedono in televisione: semplici fino al didascalismo, ma più dirette nel raccontare una storia al grande pubblico. ,Così, due bravi attori come Luigi Lo Cascio e Donatella Finocchiaro sembrano non sempre a loro agio (soprattutto il primo, costretto a parlare un calabrese forzato, che suona finto: e sì che l’attore rivelatosi con I cento passi è siciliano, strano il suo impaccio), le ambientazioni nel misero Sud d’Italia come nelle periferie lugubri del Belgio (con tanto di baraccopoli) sembrano finte tanto sono “caricate”, come pure parecchie scene madri. Mentre i belgi cattivi sono proprio tagliati con l’accetta; e anche su questo versante parecchie situazioni (che probabilmente sono veritiere, in quel contesto) sono narrativamente poco sostenibili, almeno per una sensibilità contemporanea. Le cose migliorano quando il bambino Rocco diventa ragazzo: Matteo Simoni è credibile nella parte del giovane aspirante cantante, ingenuo e dignitoso, sensibile e modesto; e anche la bionda di cui lui si innamora è interpretata da una convincente Evelien Bosmans (attrice televisiva, cui sarebbe da augurare una bella carriera nel cinema tanto buca lo schermo), dolce e attraente come la parte richiede.,Ma con tutti i difetti che gli si possono trovare, non si può negare un effetto collaterale ben calcolato. Identico a quello che scatta per la canzone, nel cui meccanismo per quanto stucchevole – è ripetuta nel film fin troppe volte – alla fine ci si casca dentro in pieno: nel senso che il motivetto non te lo togli più dalla testa; mentre Marina lo prendi per quello che è, un’epopea popolare, ingenua e retorica ma sana nel raccontare sentimenti, affetti, speranze e realizzazioni di gente umile che viene premiata dalla vita. E anche nel rapporto tra figlio e genitori, nella seconda parte, non mancano momenti intensi. Alla fine, ammettiamolo, ci scappa anche un po’ di emozione e di legittimo orgoglio, per quel figlio d’Italia che arriva fino a New York, sul palco del mitico Carnegie Hall, e conquista la platea: non dimenticandosi di chi sta dall’altre parte del mondo, ad ascoltarlo su una vecchia radio a transistor.,Antonio Autieri