Costato appena 4 mln di dollari (una bazzecola per Hollywood, che di solito ragiona con almeno uno zero in più) e presentato con successo al Sundance Festival del 2011, Margin call è uno dei film più interessanti che tematizzano la crisi recente, in particolare il crollo di Lehman Brothers, mai espressamente citata ma al centro del fatto di cronaca a cui sembra più da vicino rimandare il fatto narrato.
Girato come una tragedia classica, in sostanziale unità di spazio e di tempo, il film inizia nel pomeriggio di una giornata lavorativa qualsiasi, negli uffici ai piani alti di un grattacielo di Manhattan dove si stanno annunciando consistenti tagli al personale. Più di uno raccoglie le sue cose nell’iconico scatolone e se ne va, tra questi un capo analista (Stanley Tucci), che prima di andarsene consegna ad un suo giovane collaboratore (Zachary Quinto), una chiavetta usb con la raccomandazione di guardare ciò a cui stava lavorando, qualcosa, a suo dire, di molto importante. Il resto del film è quasi interamente dedicato alla lunga notte in cui il giovane scopre la falla nel sistema di analisi e la sostanziale bancarotta del colosso e, in una serie di riunioni pilotate dallo “squalo” a capo della società (un brillante Jeremy Irons), si arriva a delineare la catastrofica “strategia di uscita”: vendere tutto per incassare il più possibile prima che la notizia si diffonda e le azioni diventino carta straccia, anche se questo significa inondare il mercato di titoli tossici.
Il sorprendente esordio alla regia di J.C. Chandor è un film che racconta il mondo della finanza scegliendo un registro narrativo dimesso, lontano anni luce dalle sovraccaricate performance di Michael Douglas nel classico anni Ottanta Wall street di Oliver Stone. Tutto avviene senza schiamazzi, nessuno dà in escandescenze; e questo raffreddamento calcolato della tragedia concorre nello spettatore ad aumentare il senso di straniamento rispetto ad un mondo, quello della finanza, che appare lontanissimo dalle vite della “gente comune” (esplicativi in questo senso i dialoghi in cui i due giovani appena approdati a Wall Street parlano degli stipendi a cinque/sei zeri loro e dei loro capi).
Per altro verso Margin call riesce a mantenere una tensione quasi lancinante in un continuo gioco di rimandi con lo spettatore, che viene portato scientemente ad attendersi situazioni o svolte che poi puntualmente non si verificano. Soprattutto i personaggi, partono come cliché ma poi mutano di segno con svolte imprevedibili, il che è reso possibile anche da un cast strepitoso che vede oltre ai nomi già citati anche Demi Moore, nei panni di una donna che si è fatta largo in un ambiente poco attento alle quote rosa, e Paul Bettany, nel ruolo dello yuppie (solo apparentemente) cinico e impenetrabile. Prendiamo ad esempio l’inizio del film: il vecchio capo delle vendite (Kevin Spacey), egoisticamente preoccupato per la salute del proprio cane mentre i suoi sottoposti vengono licenziati, sembra un personaggio già chiaramente connotato e contrapposto al giovane analista di belle speranze (Zachary Quinto), addirittura idealista, quando va a ringraziare il suo capo che, scatolone alla mano, sta lasciando l’ufficio. Nel prosieguo del film i due personaggi cambiano radicalmente ai nostri occhi, senza che questo comporti un giudizio di valore: il finale, fortemente simbolico, in questo senso è illuminante.
Eliseo Boldrin