Altro passo falso di David Cronenberg, dopo l’ermetico ed estetizzante Cosmopolis. La storia, cupa e tragica, prende le mosse con la presentazione di tre personaggi differenti, legati tra loro a un filo doppio che solo la narrazione svelerà (a dire il vero, in modo alquanto prevedibile). Agatha (Mia Wasikowska) è una ragazza un po’ strana che si reca a Los Angeles, pare, per una vacanza a caccia di star cinematografiche. L’accompagna per le vie della città un autista, Jerome (Robert Pattinson, in un ruolo analogo a quello di Cosmopolis). Stacco di montaggio repentino ed ecco il giovanissimo (scopriremo che ha appena 13 anni) Benjie, rampollo della coppia formata da Olivia Williams e John Cusack. Giovanissimo ma già astro del firmamento hollywoodiano, tanto da essere sul punto di firmare un contratto milionario per una serie televisiva. Due i problemi che paiono insormontabili sul piano lavorativo: l’arroganza e i modi bruschi del ragazzino che non esita a mandare al diavolo i propri colleghi e una brutta storia di droghe alle spalle. Terzo ambiente: la lussuosa abitazione di una non più giovane attrice, la Havana Segrand interpretata dalla migliore del cast, Julianne Moore, diva sull’orlo di una crisi di nervi, segnata da un passato burrascoso fatto di violenze e incesti e prossima a interpretare quello che è il ruolo definitivo: il ruolo di coprotagonista nel remake di un film che fruttò alla madre un Golden Globe.

Per quello che è un atto d’accusa contro il sistema hollywoodiano rappresentato da personaggi senza scrupoli, campioni di ipocrisia e cinismo, Cronenberg sembra guardare, più che al proprio cinema piuttosto riconoscibile, alle opere e allo stile di altri. Il magnifico e inquietante Mulholland Drive di David Lynch di cui riprende le atmosfere corrotte e ambigue losangeline, una colonna sonora ipnotica e diversi inserti onirici oltre a quella che si rivelerà essere una sorta di struttura circolare; il mondo capovolto e i personaggi sopra le righe di un Bret Easton Ellis; uno sguardo a certi noir decadenti del passato con una sequenza, quella della Moore che guarda sognante sul grande schermo il capolavoro della madre di cui vorrebbe prendere il posto, che è un bell’omaggio a Viale del tramonto di Wilder. Peccato che ben presto le buone intuizioni di regia e di scrittura (di Bruce Wagner, autore dello script di Nightmare 3, uno che di sogni e incubi se ne intende…) spariscano e si annullino in mezzo a tanto cinismo e autocompiacimento.

Diverse le sequenze che lasciano perplessi: la povera Moore nella sequenza ‘scult’, quando in bagno si lascia andare intestinalmente davanti a una meditabonda Wasikowska; la violenza verbale di cui sono intrisi i dialoghi dei giovanissimi colleghi di Benjie (dove, anche in questo caso, i riferimenti scatologici non mancano) e ancora: incesto, suicidio, disagio mentale, incubi ricorrenti, un cinismo che non lascia scampo. Cronenberg ha le idee chiare e probabilmente ha pure ragione nel prendersela con un ambiente non facile come Hollywood, anche se a generalizzare si sbaglia sempre. Hollywood è un inferno e la definizione di inferno come un posto in cui non ci sono droghe, che Wagner mette in bocca ad uno dei personggi, è centrata rispetto a un contesto che il regista canadese pare conoscere e che racconta, spesso utilizzando il registro sferzante del grottesco e della satira, senza nascondere nulla, eccetto i nomi di finzione di attori e produttori e addetti ai lavori. Non c’è speranza per Benjie: la star giovanissima, idolo delle ragazzine, strapagata ma con problemi di droga alle spalle e, soprattutto, sfruttato da genitori che mirano solo al successo e a mantenere lontani paparazzi e opinione pubblica. E nemmeno per gli altri personaggi che vedranno, pian piano sgretolarsi i propri sogni: la Wasikowska, che proprio come la Watts nel film di Lynch, perderà definitivamente la propria innocenza; Pattinson, autista con velleità di sceneggiatore e soprattutto Julianne Moore, sempre più ossessionata dal confronto impari con la madre.

Cronenberg non lesina i colpi bassi e il morboso – elemento sempre presente nel suo cinema ma mai assoluto protagonista – qui prende il sopravvento: nella sequenza erotica in cui, come in un gioco di specchi, il regista de La mosca, si dilunga nel mostrare la masturbazione di un attore voyeur, nella trattazione grossolana dell’incesto, nei momenti onirici in cui domina la morte di innocenti. È un vero peccato che un regista così rivoluzionario sul piano formale e dei contenuti, capace di raccontare in più di trent’anni di attività ossessioni e pulsioni terribili ma anche la dimensione grande e nobile dell’uomo, i suoi desideri profondi, il suo desiderio di essere amati e di amare (si pensi a quell’inno all’amore puro e incondizionato che è M Butterfly), abbia perso ispirazione, mano e cuore. Pochi infatti in guizzi importanti in questo film, eccezion fatta per il cameo di una irriconoscibile Carrie Fisher, quintessenza di una certa immagine malata di Hollywood. Soprattutto, non c’è mai uno sguardo di pietà o compassione per nessuno dei personaggi in gioco, neppure per i due giovani e forse innocenti protagonisti alle prese con un finale tragico, scandito dai versi struggenti della poesia “Libertà” del surrealista Paul Éluard e che stonano decisamente con una fine così triste da lasciare senza parole.

Simone Fortunato