Un manifesto è uno “scritto programmatico di movimenti politici e culturali” e ben si addice all’opera di Julian Rosefeldt (al suo secondo film), intitolata appunto Manifesto, in cui una versatile e sempre più brava Cate Blanchett veste i panni di tredici personaggi diversi per recitare altrettanti manifesti sul concetto di arte.

Gli episodi, di per sé, non sono collegati tra loro come trama, ma uniti da riflessioni sull’arte secondo i principi arte rivoluzionaria, futurismo, dadaismo. Si passa quindi dalle immagini di una donna che si alza al mattino per andare in fabbrica, a quelle di un senzatetto che si trova in ambiente abbandonato e diroccato, da quella di una donna ubriaca in un locale ad altre girate in uno studio televisivo, in occasione di un funerale o durante le prove di un balletto. In tutti i casi, protagonisti sono i monologhi sull’arte. In particolare colpisce la scena di una famiglia che si ritrova unita a tavola dove, prima di iniziare a mangiare, Cate Blanchett comincia a recitare una lunghissima “preghiera” sull’arte che finisce con l’esasperare i commensali. Oppure una delle scene finali – a nostro avviso la più interessante – ambientata in una scuola elementare dove la maestra insegna ai bambini che non «è importante da cosa si prende ispirazione ma che cosa poi si provi veramente» e si arriva a parlare di cinema.

Manifesto è un’opera affascinante ma non è un film che si possa proiettare facilmente in un cinema o che sia inquadrabile in un genere; il distributore I Wonder lo propone, infatti, come evento di un paio di giorni durante i quali potrà trovare un suo pubblico – di nicchia – che lo apprezzerà. Aspetto curioso: in alcune occasioni all’estero è stato proiettato nelle gallerie d’arte; ogni stanza aveva in sottofondo uno dei tanti monologhi su “che cos’è l’arte”.

Stefano Radice

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