Potrebbero bastare queste poche righe di trama, a chi si ferma alla superficie, a farsi – ovviamente – un’idea parziale del film. Il noto critico Maurizio Porro, sul Corriere della Sera, ci ha visto un film connotato da un fastidioso “buonismo ciellino”. Passi per il fastidioso buonismo (anche se siamo fra quello che non amano questo neologismo, inventato un decennio fa per applicarlo alla politica vacua di un famoso politico di sinistra, oggi sindaco di Roma). Ma perché “ciellino”? Bastano un cliché da “pezzo di colore” (la chitarra in compagnia), il pregiudizio (certe frasi spiritualeggianti e vuote ricordano piuttosto i fan della tendenza buddista) e un elemento veritiero (l’amore per la montagna, peraltro reso parzialmente: è solo ecologismo, non apertura al Mistero) per mistificare? Certo, quando si parla senza conoscere e con un bel po’ di astio.,Quanto a “Mai più come prima”, il quarto film di Giacomo Campiotti – che dopo “Corsa di primavera” e “Come due coccodrilli” faceva presagire a una carriera ben più solida; già “Il tempo dell’amore” era una delusione – sembra la versione “seria”, d’autore, di “Che ne sarà di noi” di Giovanni Veronesi. Anche qui c’è il viaggio dopo l’esame di maturità, come occasione per crescere e conoscersi davvero, e soprattutto c’è l’amicizia tra poco più che maggiorenni. Anche la composizione dei personaggi ha qualche similitudine, dal momento che il coatto Cesare detto Fava ricorda il “perdente” disegnato con Veronesi da Elio Germano. Ma, paradossalmente, senza grandi ambizioni il regista toscano coglieva molti più bersagli, disegnando una gioventù disorientata, apparentemente solo in cerca delle prime esperienze sessuali ma in realtà così provocata dalla vita – anche grazie all’amore, certo – da chiedersi con sincerità e semplicità “che ne sarà di noi”. ,Le domande sul proprio destino sono invece più confuse e pretenziose nel film di Campiotti, non aiutato da attori più legnosi del lecito: altro paradosso, i professionisti in erba di Veronesi – per continuare nel paragone a distanza – risultano più spontanei (Silvio Muccino), più veri (Sanfelice), più toccanti (Germano). E comunque più bravi e meno costruiti. Ma è allora tutto da buttare in mai più come prima? No, assolutamente. Ma i personaggi sono troppo esangui (a parte il coatto, ben reso pur nella facilità di una ricca tradizione cinematografica di questo tipo di figure romanesche), le frasi quasi sempre hanno il peso delle sentenze (“siamo polvere di stelle… hai dentro di te l’energia”) e l’attore che interpreta Enrico, il ragazzo attorno cui ruota tutto il gruppo, non brilla per espressività quando si lancia in considerazioni impegnative sull’esistenza. Se poi aggiungiamo l’impressione che alla bontà si è sostituita l’immagine di essa (anche l’amicizia con il disabile suona una concessione allo stereotipo, tanto si vedono poco insieme) il quadro è quasi completo. Eppure gli spunti dell’amicizia tra giovani, dello snodo decisivo della vita, dell’amore per la montagna con tutte le possibilità che si portava dietro si sprecano; notare l’arrivo in cima, con la dovuta commozione e contemplazione della bellezza strepitosa (dal punto di vista panoramico il film dà molto) che lasciano il posto a un’incomprensibile e sguaiata istintività. Ragazzi così, in cima non ci arrivavano. Tra le cose positive rimane forse soprattutto il personaggio del padre (un cameo di Francesco Salvi, ormai ex comico) del ragazzo scomparso in montagna che, quando dice “Mio figlio è morto cercando la bellezza” fa vibrare di emozione. Ma è un’emozione, appunto, e di breve durata.,Antonio Autieri