Il cuore del nuovo film di Pedro Almodóvar (presentato a Venezia 2021) riguarda la connessione tra la ricerca di una donna ossessionata dal recupero delle ossa dei parenti, che furono assassinati e seppelliti in massa durante la guerra civile spagnola, e i tentativi di due neomamme di fare pace con le loro famiglie. Il regista spagnolo intreccia queste vicende, suggerendo anche gli effetti a catena che possono derivare da interazioni casuali: in questo modo crea una scia di storia, arte, architettura e lignaggio, piegando senza sforzo ogni elemento della della storia (e della storia recente del suo paese) in uno dei suoi melodrammi più intensi.
Fotografa di alto livello, Janis (Penélope Cruz) incontra un antropologo forense, Arturo (Israel Elejalde), che sta immortalando per una rivista, chiedendo informazioni sul suo coinvolgimento nel recupero di ossa da luoghi di sepoltura nascosti in tutta la Spagna. Arturo appartiene a un’organizzazione che potrebbe potenzialmente aiutare Janis a riesumare i resti di suo nonno, sebbene sia coinvolta una procedura di approvazione che potrebbe richiedere mesi. Janis e Arturo finiscono a letto insieme, dopo di che Almodóvar con un salto temporale mostra Janis in ospedale mentre dà alla luce il loro bambino. Lì incontra un’adolescente incinta di nome Ana (Milena Smit). Tra le due donne, legate dalla stessa esperienza, sboccia un’amicizia.
Le donne di questo film soffrono, in particolare Ana: hanno identità chiare e fanno scelte che si ritiene siano almeno in parte definite dalle tradizioni culturali e dalle influenze politiche. E mentre Arturo è sposato, non è demonizzato come un ambizioso donnaiolo, poiché ama chiaramente Janis e desidera essere nella sua vita e in quella di suo figlio. Ma è la storia che li separa, perché Janis è orgogliosa di essere una mamma single come sua madre e sua nonna, anche se questo orgoglio è intrecciato con il dolore, un senso di isolamento inevitabile. Janis sta duplicando e portando avanti una tradizione di assenza maschile iniziata con l’uccisione del suo bisnonno durante la guerra civile spagnola e Almodóvar in qualche modo rende lucide le nevrosi di queste azioni nel suo prediligere le storie al femminile. Anche questa volta c’è un unico uomo nel film, ma il suo ruolo è del tutto tangenziale alla storia.
Il problema di Madres paralelas è l’accumulo, come capita spesso nei film del regista spagnolo, che nei suoi melodrammi si ispira tanto a registi come Douglas Sirk. Ad Almodovar piace mettere tanta carne al fuoco (dalla quantità di personaggi, alle ambientazioni, alla tavolozza dei colori, fino agli accessori nelle case), convinto che lo spettatore più cose trovi, più si appassioni. Il risultato è una storia di grandi sentimenti, che mescola amore materno, storia della guerra civile spagnola, innamoramento omosessuale, problemi giuridico-sanitari e conflitti di famiglia. Un po’ troppo per sviluppare i personaggi come meriterebbero. Penelope Cruz è brava a portare gran parte del peso del film sulle spalle, ma una più equilibrata distribuzione della storia l’avrebbe valorizzata, invece che renderla una sorta di telenovela sudamericana in condensato.
Beppe Musicco