La giovane Sook-hee è una ragazza di umili origini e abilissima borseggiatrice. Suo malgrado, viene coinvolta in una truffa ordita dal falso conte Fujiwara, deciso a ingannare la ricca ereditiera giapponese Hideko per impossessarsi dei suoi beni. La donna vive in una isolata villa di campagna, sotto l’occhio vigile e perverso del conte Kouzuki, suo zio e tutore; ma quando Sook-hee viene assunta come cameriera personale di Hideko e il falso conte Fujiwara si presenta alla tenuta nelle vesti di corteggiatore, gli eventi prendono una piega inaspettata e controversa, sconvolgendo completamente i piani dei due alleati e la quotidianità della loro vittima…
Presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2016, Mademoiselle nasce dalle pagine del romanzo Ladra di Sarah Waters, finalista del Booker Prize nel 2002 e già adattato dalla BBC con la miniserie Fingersmith nel 2005. Nelle mani del chiacchieratissimo regista sudcoreano Park Chan-wook (Old Boy e Lady Vendetta i suoi titoli più famosi e riusciti) il best-seller si trasforma in un susseguirsi di suggestioni e temi tutto sommato affini alla sua precedente filmografia, ma che di essa trattengono solo ed esclusivamente il manierismo e gli eccessi della sua fin troppo compiaciuta struttura estetica. Il film è suddiviso in tre atti scanditi da altrettanti colpi di scena, che si districano tra intrecci temporali, scene di amore saffico e un disperato quanto vuoto bisogno di mostrare e spiegare – fino alla morbosità – ogni singolo dettaglio della vicenda, soffocando così nello spettatore qualsiasi possibilità di partecipazione.
Intrighi, sguardi e suggestioni sostengono la prima ora di film, che ci cattura grazie a tensioni ben calibrate e ad un’atmosfera sospesa e misteriosa; crollato il primo castello di carta e smascherato il primo inganno saremmo già pronti ad un finale, e invece il regista decide di dilatare ulteriormente la vicenda, che pian piano perde di verve nonostante le ottime prove delle attrici protagoniste (Kim Tae-ri nei panni di Sook-hee e Kim Min-hee in quelli di Hideko). Un’ora e mezza dopo abbiamo capito fin troppo bene quanto la meschinità dell’uomo risieda nella falsità del suo volto e delle sue maschere, ma siamo soprattutto saturi della reiterazione di un gioco di specchi che non fa altro che riflettere la fumosità dell’intera struttura. Le consuete e perfettissime scene di violenza sadica, il sommarsi di amplessi e le ripetute ironie sulle assurdità compiute dagli antagonisti sono la patina che lucida un involucro sostanzialmente vuoto: proprio questo luccicante contenitore ci fa domandare dove sia finita la passione indagatrice del regista nei confronti dell’animo umano, che per quanto oscuro e controverso apparisse nelle sue precedenti opere, rivelava sempre un fondo autentico di verità.
Maria Letizia Cilea