Cecile è una giovane donna, vittima di un matrimonio violento con uno dei più talentuosi e ricchi magnati nel campo delle invenzioni ottiche. Con l’aiuto della sorella e la messa a punto di un piano ben organizzato riesce a fuggire, trovando riparo in casa di un amico poliziotto e di sua figlia. Quando giunge la notizia del suicidio del marito, Cecile è convinta di poter ripartire con una nuova vita: finché strani fenomeni e assurde coincidenze non la porteranno a sospettare che lui possa essere tornato a tormentarla…
Alla sua seconda collaborazione con la geniale casa di produzione Blumhouse, Leigh Whannell prosegue sulla strada dell’esplorazione di distopie tecnologiche e sugli effetti, più o meno inquietanti, che l’utilizzo di questi strumenti ha per il futuro – o presente – della varia umanità del nostro tempo. Come già nell’ottimo Upgrade, al livello di linguaggio cinematografico si tratta di prendere i paradigmi del genere e rilanciarli a partire da una prospettiva meno spettacolarizzante, più vicina – e forse perciò più inquietante – al possibile vissuto dello spettatore. I tratti del thriller psicologico in salsa fantascientifica assumono così tutto un altro colore, e persino una storia di stalking delle più canoniche acquista il potenziale necessario per assumersi a critica di una società voyeuristica, di una collettività che attraverso gli occhi onniveggenti delle videocamere riesce a fare dell’idea della persecuzione una questione d’abitudine.
L’uomo invisibile (tratto da un racconto di H.G. Wells) racconta infatti una storia di ossessione, un amore malato nel quale l’uomo, convinto di possedere la donna, infesta la realtà di lei fino a rendersi presente come minaccia costante, anche e soprattutto nella sua assenza fisica. È questa la sensazione di asfissia che si ha sin dalla prima scena, quando una mano poggiata sul grembo della protagonista in una scena notturna mette lo spettatore in uno stato di allerta che mai gli sarà concesso di abbandonare nel corso del film. Adrian è un giovane rampollo in ascesa nel campo delle tecnologie ottiche, l’invadenza del suo sguardo – che mai vedremo, se non nell’ultima scena del film – passa attraverso telecamere e apparecchi spia installati negli angoli più insospettati della loro enorme casa in riva al mare: l’occhio che osserva da prospettive più strane diventa dunque un personaggio onnipervadente, supportato con grande cura da una regia che inquadra i protagonisti a partire da punti di vista ciechi (la nuca, le spalle, gli angoli vuoti delle case), come a dire che ciò i personaggi – e noi con loro – non vedono è comunque nelle mani di una presenza manipolatrice e onnisciente. Quando Cecilia riesce a fuggire, la minaccia di Adrian continua dunque a occupare gli spazi dove lei trova riparo, così che allo spettatore sia offerto un vantaggio notevole rispetto alla stessa protagonista: sappiamo che qualcosa continuerà ad andar storto anche quando Cecile sarà convinta di essere libera. Questo sospetto è reso ancor più intrigante da una serie di colpi di scena notevoli che, in mix con una colonna sonora terrificante e un’estetica grigia e opprimente, disorientano completamente lo spettatore sul possibile esito della vicenda, incuriosendolo e rendendogli impossibile staccare gli occhi dallo schermo.
Con una scrittura secca ed efficace Whannell riesce a calibrare le istanze etiche con quelle del puro intrattenimento, che in questo particolare prodotto affonda le sue radici nelle logiche narrative del thriller d’alta tensione: non soltanto il punto di vista di una donna abusata che rievoca il trauma e magari lo allucina all’infinito nella realtà, ma la presenza di uno sguardo reale, che è anche quello della tecnologia post-umana, al cui predominio il soggetto non può sfuggire. Il gioco diventa più interessante quando al sospetto di una vera persecuzione si affianca quello di una mania di persecuzione, con la possibilità che la protagonista stia soltanto immaginando ciò che crede essere reale: su questo piano Elizabeth Moss, qui nei panni di Cecile, fa un lavoro incredibile nella modulazione della profondità del suo stesso sguardo, capace di passare dalla lucida determinazione all’accesso di follia da un fotogramma all’altro. Il ragionevole dubbio dello spettatore si scioglie poi nella maniera meno prevedibile possibile, attraverso l’introduzione di entità iper-tecnologiche messe lì a coprire e doppiare il mostro che è l’uomo stesso nei suoi più oscuri desideri di dominio sull’altro.
Logico e vincente è poi il finale, che nella sua semplicità ribalta i ruoli di forza e gli equilibri interni dell’intera vicenda, ricordandoci che ogni strumento è tutto sommato sempre manovrabile da un soggetto: l’esito dipende da chi guida la macchina e dallo scopo per cui lo fa: una volta smascherato il nemico qualsiasi possibilità di vittoria sta dunque nell’essere in grado di usare i suoi stessi trucchi in modi nuovi, secondo tempi e per scopi del tutto imprevedibili. Interessante riflessione sul rapporto uomo-macchina arriva dunque dal regista, che insieme a una personale prospettiva sull’imperante ideologia del tecnologico a tutti i costi ci offre qui anche una grande lezione di cinema.
Maria Letizia Cilea