Dall’ espulsione dal corpo della marina per uno scandalo sessuale fino alla sua ascesa come capo del corpo speciale delle SS, L’uomo dal cuore di ferro racconta la storia di Reinhard Heydrich: conosciuto come “il macellaio di Praga” e considerato la reale mente delle operazioni attribuite a Himmler durante tutta la durata del Reich. La sua parabola esistenziale si lascia dietro una scia di violenze ed efferatezze tra le più terrificanti che la storia abbia mai conosciuto.
Il nuovo lavoro di Cedric Jimenez tenta di scavare sin da subito nelle origini del mostro che più di tutti ha ucciso e sterminato intere popolazioni in nome della pulizia etnica nella follia del Terzo Reich. La narrazione prende infatti il via dallo scandalo sessuale che lo vede umiliato e congedato per direttissima dalla Corte Marziale; da reietto della società la sua sorte verrà ribaltata dalla moglie, qui interpretata da un’inquietante Rosamund Pike, che lo introduce al partito nazista e al mondo patinato e terrificante dell’Alto Comando guidato da Heinrich Himmler. Deputato alla fondazione del Corpo speciale delle SS e ideatore della Soluzione Finale, il temperamento bestiale di Heydrich ci viene mostrato sin dal primo perturbante sguardo del bravo Jason Clarke: la presentazione del personaggio sembra quasi volerci introdurre al tono di perversione che lo domina ancor prima di diventare il braccio destro di Himmler. È infatti proprio a seguito dell’umiliazione subita a causa dello scandalo sessuale che Heydrich, aizzato da una moglie ancor più disumana e gelida, intraprende il suo percorso nella scalata del potere: la sua dedizione al lavoro sembra essere una vendetta per quell’originario torto più che una missione ispirata dalla vera fede nel partito.
Purtroppo l’interessante approccio del regista, che sembrava voler indagare l’origine della malvagità dell’uomo, ben presto si stempera in una troppo canonica narrazione da biopic di guerra; il protagonista, fin qui delineato con una psicologia sfaccettata, nella seconda parte del film diventa poco più che un abile automa omicida: si seguono le sue brillanti operazioni di sterminio di massa senza risparmiare allo spettatore i dettagli più cruenti, tralasciando il suo rapporto con una moglie e una famiglia che fino a quel momento erano stati polo emotivo determinante. La mancanza di equilibrio si evidenzia anche nell’entrata in scena dei componenti della resistenza cecoslovacca, che soltanto nella seconda ora di film vengono presentati e seguiti nelle loro vite e aspirazioni. Saranno loro a compiere nel 1942 gli attentati a Heydrich nell’ormai famigerata operazione Anthropoid, eppure la volontà di seguire in parallelo la loro voglia di vita e libertà contrapposta all’attitudine mortifera del rinomato macellaio di Praga non ha quasi mai il supporto di una scrittura che permetta di coinvolgere davvero lo spettatore. Il tutto si svolge in modo chiaro e correttamente realizzato al livello tecnico, ma senza quella verve che il film sembrava promettere nella prima parte; il buon cast secondario, che vede, tra gli altri, Mia Wasikowsa nei panni della fidanzata di uno dei ribelli, appare dunque sprecato in personaggi a cui poca attenzione e poco tempo vengono dedicati.
Nonostante qualche evidente difetto, il film di Jimenez si fa guardare comunque con scorrevolezza. Mantenendosi sul piano della medietà senza mai brillare, non ha alcuna pretesa di entrare nel novero dei capolavori del genere e lascia forse la sensazione di aver troppo poco osato nella penetrazione della psicologia di un personaggio che tanto avrebbe avuto da offrire allo schermo.
Maria Letizia Cilea