Una telefonata dagli Stati Uniti mette in agitazione due agenti segreti italiani: qualcuno, in Sardegna, dichiara di essere proprietario (legale) della Luna. Pianeta che per gli “Americani” è, dal 1969, roba loro. Il governo italiano si allarma per l’ira dell’ingombrante alleato e quindi i due agenti devono porre rimedio: per farlo, inviano in Sardegna un giovane militare che si fa chiamare Kevin Pirelli ma che in realtà all’anagrafe fa Gavino Zoccheddu (ma ha rinnegato le proprie radici). Prima, dovrà fare un corso di “sardità” da un sardo doc, l’anziano Badore che accetta l’incarico suo malgrado e lo svolge a modo suo. Poi inizierà la missione di Gavino, che lo porterà nel paese di Cuccurumalu e in cui scoprirà cose impreviste e impensabili.
L’uomo che comprò la Luna, opera seconda di Paolo Zucca, ha analoghi pregi e difetti dell’esordio: L’arbitro, che in un inconsueto ed efficace bianco e nero, dilatava uno spunto da cortometraggio (quale era in origine) mescolando grottesco e riflessioni serie sull’essere sardi (e sull’etica sportiva). Qui la Sardegna è ancor più in primissimo piano, ma lo spunto è ancora più forzato, da apologo letterario surreale che però sullo schermo mostra subito la corda. Già credere ai pur bravi e simpatici Stefano Fresi e Francesco Pannofino come agenti segreti è dura; tanto più a Benito Urgu (comunque sempre notevole) “mediatore culturale” per quanto sui generis per rieducare il commilitone che deve rientrare nell’isola mescolandosi ai nativi; e non parliamo dell’acquisto della Luna da parte di un misterioso sardo da smascherare a tutti i costi. Pur con raffinatezza, il gioco diverte solo chi conosce bene quei luoghi (comuni e no) e quel tipo di umanità (gli uomini col basco, i ragazzi che si muovono in contemporanea, le donne col velo): agli altri, il film un po’ strappa qualche sorriso e un po’ stucca, con battute e situazioni che non riescono mai a diventare davvero travolgenti (giusto un paio di capocciate a sorpresa, per dire l’originalità). Il surreale riesce ai registi nordici come Kaurismaki; noi latini funzioniamo meglio sul grottesco. La chiusa seria e “romantica” regala quanto meno l’ingresso in campo di due grandi attori come Angela Molina e Lazar Ristovski, ma anche la galleria dei grandi sardi del passato che si sono battuti per la loro terra e contro ogni ingiustizia suona parecchio retorica e sfonda le porte solo di chi ha già deciso di emozionarsi. Agli altri, rimane qualche punto interrogativo.
L’operazione, ovviamente molto personale e sincera del cagliaritano Zucca, fa comunque simpatia – al netto della visione “anni 70” degli americani “padroni” in Italia – anche per la prova di Jacopo Cullin, lui sì credibile come giovane sfuggito da una cultura orai “rinnegata” che lo richiama alle ragioni del cuore. Ma serviva una scrittura più robusta di quella di Geppi Cucciari (non a caso, molto a sketch) e Barbara Alberti, e un intreccio più interessante. Insomma: il bicchiere ci risulta mezzo vuoto, se la cosa migliore è la musica settecentesca di Luigi Boccherini (“La musica notturna delle strade di Madrid”, che molti ricorderanno in Master & Commander). Però chi ha a cuore la bandiera dei 4 mori, è probabile che il bicchiere lo troverà mezzo o del tutto pieno.
Luigi De Giorgio