Quarant’anni di storia italiana raccontati attraverso la vita di un uomo qualunque. Prima ancora, la vita di un uomo normale, conosciuto davvero dal regista, che ha attraversato decenni complessi per il nostro Paese senza mai perdere dignità e senza scendere mai a compromessi, narrata mettendosi all’altezza della sua onestà e semplicità. Era questa la sfida del nuovo film di Giovanni Veronesi, che lascia i toni della commedia ridanciana e sempre un po’ sopra le righe per un film dalle ambizioni maggiori, che guarda esplicitamente ai grandi classici della miglior commedia all’italiana, come C’eravamo tanto amati.,Si chiama Ernesto Marchetti nel film, ma il personaggio è una trasposizione fedele di tal Ernesto Fioretti, nome sconosciuto ai più ma ben noto a Veronesi e anche ad altre figure del nostro cinema perché Ernesto per loro ha lavorato (come factotum sui set e ora come autista di Carlo Verdone, per esempio). Ma Ernesto, il vero e anche il personaggio del film, di lavori ne ha fatti tantissimi: tappezziere con il padre, cuoco d’asilo (poco capace), traslocatore e tanti altri. Prima ancora Veronesi ce lo mostra bambino, succube su un campo di calcio di un amico egoista che sarà compagno della sua vita e terminale di un affetto che non si incrina nemmeno di fronte ai suoi limiti. E se il padre è figura dura e incapace di amare (gli fa interrompere gli studi per il precoce lavoro a bottega perché “tanto non vali un c….”, è lui a definirlo “l’ultima ruota del carro” della famiglia), la moglie di cui è sempre stato innamorato è presenza semplice e costante, mai messa in discussione. La sua vera ricchezza, in una vita piena di fatti importanti, dolori, angherie…,Ambizioso, a tratti divertente, con tocchi di sensibilità affidati soprattutto agli attori (ottimo Elio Germano come protagonista, sempre più bravo Ricky Memphis nel ruolo dell’amico, ma intonati anche il padre Massimo Wertmuller e la moglie Alessia Mastronardi così come altri comprimari), L’ultima ruota del carro è credibile quando parla di Ernesto e dei suoi snodi personali (è ben disegnata questa figura di italiano che non vuole accettare piccoli e grandi compromessi, ma non ci fa sopra nessuna morale: per lui è giusto così, e basta) e meno quando lo mette al centro di vicende chiave della storia d’Italia. L’omicidio Moro, i rampanti anni 80, la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio 1982, Tangentopoli, l’ascesa di Berlusconi (pure al centro di un monologo di Memphis parecchio divertente) sono visti di sfuggita, perché il personaggio non ha mai i mezzi per capire davvero quanto succeda attorno a lui. Volutamente, dunque, non ci si sofferma mai su nessuno di essi. Eppure allo spettatore più esigente lasciano l’impressione di una superficialità di fondo che non permette di realizzare il grande affresco dell’Italia recente che si pretendeva. L’impressione è che, come a Ernesto manchino i mezzi per capire, a Veronesi manchi la capacità non di narrare per singole scene anche azzeccate, ma quella di restituire il senso – anche critico – degli avvenimenti. Nonostante la sincera adesione alla vita di un uomo così atipico nel nostro cinema: un puro in un mondo corrotto (ma la visione della società è quanto meno limitata: possibile che solo Marchetti/Fioretti e sua moglie, e pochi altri, siano bave persone?). Rimane un collage di figurine a volte superflue (il ladruncolo “toscano”, il pittore necrotico) e di aneddoti gustosi o meno, con chiusura anche bella sul rapporto tra Ernesto e la moglie che suona però un po’ telefonata. E meno emozionante di quanto sulla carta poteva essere (come pure la vicenda della malattia, sviluppata in un modo frettoloso).,Ci si può accontentare di un buon prodotto, tutto sommato ben fatto, anche perché tra tutti i film da regista di Veronesi questo è il migliore. Ma è impossibile non sorvolare su tante manchevolezze. Anche di sceneggiatura, che dovrebbe essere la sua carta migliore (Veronesi ha scritto sceneggiature anche per Francesco Nuti e Leonardo Pieraccioni): passi per una madre che si vede solo per pochi istanti, ma la sparizione totale del padre – rapporto contrastato e forte – dalla storia sembra il classico buco nello script del film. Cui forse manca quella sensibilità del grande narratore di uomini che finora Veronesi non si è dimostrato, se non per pochi accenni, nelle sue precedenti fatiche. ,Antonio Autieri,