Leggere attentamente le avvertenze: questo è un film apertamente “missionario”, fatto da un regista il cui credo cattolico è un programma e un manifesto. Magari con qualche debolezza dal punto di vista tecnico-artistico, seppur nel complesso ben fatto e assolutamente dignitoso, ma chi lo ha realizzato di tutto ciò si è curato poco. Il suo scopo, assolutamente centrato, era altro: comunicare la sorpresa della scoperta, per un incontro assolutamente sorprendente. Non si può dunque nel valutarlo non tener conto dell’intento dell’operazione. Ma questo è un film “consigliato” per tutti quelli che non temono di confrontarsi con una proposta forte.,Partendo da un rifugio la mattina presto, un sacerdote percorre con passo cadenzato un sentiero di montagna. In silenzio, con il solo rumore del suo respiro, s’inoltra nella neve per iniziare una scalata che lo porterà a raggiungere l’ultima cima. Per don Pablo Domínguez, che amava così tanto la montagna da definirla “un’anticamera del Cielo”, l’ultima cima non è stata quella del Moncayo – l’unica vetta che gli restava da conquistare del Sistema Iberico (catena montuosa che separa la provincia di Saragozza, in Aragona, da quella di Soria, in Castiglia) – ma il Cielo stesso. In quell’ultima escursione, infatti, don Pablo ha incontrato “sorella morte”, così da passare direttamente dalla bellezza e dalla maestosità del creato (“celebrare l’Eucaristia in montagna – diceva – è come celebrarla in un tempio costruito da Dio”) alla gloria del Creatore.
Quando nel 2009 apprese dal telegiornale la notizia della sua morte, il regista Juan Manuel Cotelo rimase colpito: solo pochi giorni prima, infatti, aveva conosciuto don Pablo, al termine di una sua conferenza (il sacerdote insegnava alla facoltà di teologia di San Dámaso, a Madrid), e aveva chiacchierato con lui per pochi minuti. Un incontro avvenuto quasi controvoglia, che Cotelo aveva accettato più che altro per vincere l’insistenza di un amico che continuava a ripetergli: “Devi assolutamente conoscere don Pablo”. La notizia di quella morte improvvisa spinse Cotelo a riguardare il filmato della conferenza, un intervento in cui don Pablo, con uno stile accattivante, parlava del rapporto tra l’uomo e Dio e della “ragionevolezza della fede”.
Privo del sostegno di case di produzione e distribuzione, e senza spendere neanche un euro in pubblicità, L’ultima cima si è diffuso nei cinema spagnoli a macchia d’olio grazie al passaparola. Uscito in sole quattro sale a Madrid, nel giro di dieci giorni era già presente in ottanta sale e, dopo altre due settimane, veniva proiettato in 168 cinema in tutta la Spagna, dove nel 2011 ha vinto il premio del CEC – Premios del Círculo des Escritores Cinematográficos (meglio noto come il Cinema Writers Circle Awards) – per il miglior documentario. Nelle interviste, il regista ha raccontato la sua avventura dello spirito e come da cristiano tiepido si sia riappassionato alla vita di fede, proprio grazie alla scoperta di questa figura. “Ero cristiano da sempre – ha raccontato – ma era come se vivessi in cima alle Dolomiti, chiuso nel rifugio di montagna senza mai mettere il naso fuori”. Fondamentale, la differenza tra adesione e conversione: “Se conoscere don Pablo ha provocato in me questo cambiamento, ho pensato che un film su di lui potesse sortire lo stesso effetto positivo sugli altri”. Per farlo, Cotelo ha raccolto testimonianze e racconti di quanti hanno avuto a che fare con don Pablo (al suo funerale erano presenti tremila persone, tra cui ventisei vescovi) e ne sono stati colpiti, amati, raggiunti fino nei bisogni più intimi del proprio cuore. Insieme alle interviste ai testimoni, il documentario presenta anche il parere dei passanti, dell’uomo della strada, a proposito del ruolo del sacerdote nella società contemporanea, e gli interventi del regista stesso, che dice la sua guardando fisso nell’obiettivo della videocamera e rivolgendosi agli spettatori. La figura di don Pablo è centrale, ma il film vuole parlare di altro. Innanzitutto, non emerge un santino, un’oleografia, né tantomeno un ritratto etereo o spiritualista. “Per credere in Dio – diceva sempre don Pablo – bisogna usare la testa”. Tutto, nel film, parla della semplicità di un incontro, della convenienza della fede, della gioiosa familiarità con Cristo; una familiarità che arrivava fino all’abbraccio della croce (don Pablo aveva problemi cardiaci e due ernie: in sette anni era stato ricoverato in ospedale una quarantina di volte, senza che questo fosse un impedimento a donarsi completamente agli altri). Soprattutto, si parla della disarmante semplicità con cui ognuno può incontrare Gesù nelle circostanze della propria vita. Don Pablo era senz’altro un uomo carismatico, che entrava facilmente in empatia con le persone, ma il documentario è chiaro nel dichiarare che non bisogna possedere doti uniche e particolari per svolgere correttamente la propria missione pastorale. Insomma, è l’essere prete – questo il senso del film – che ha consentito a don Pablo di usare il proprio carisma, e non il contrario. Quando in una trasmissione radiofonica gli chiesero di mettere in ordine d’importanza le sue qualifiche tra: “sacerdote, teologo, filosofo”, don Pablo rispose, “sacerdote, sacerdote, sacerdote”.
L’ultima cima non è un capolavoro. Un occhio avvezzo può notare alcuni didascalismi, un montaggio delle immagini e della colonna sonora di livello tutt’altro che eccelso, la presentazione di un personaggio di contorno – un altro sacerdote, a capo di una band di preti rockettari – che desta qualche perplessità (non per il suo zelo apostolico ma per i suoi metodi, debitori di gusti musicali da boy-band). Ma sono aspetti secondari, nel quadro dello scopo del regista, evidentemente sincero nella sua entusiasmante scoperta di un’umanità nuova e imprevedibile. Il film non ambiva a vincere premi ai festival o a conquistare i favori della critica. Anzi, quando abbiamo incontrato il regista, ci ha detto – con rispetto e senza atteggiamenti snobistici – di temere i critici come spettatori: “I critici sono necessariamente gli spettatori più severi, perché tendono a scomporre il film nelle sue parti. In questo troverebbero molti difetti, soprattutto nelle musiche e nella fotografia, ma spero che la storia di don Pablo possa andare oltre l’analisi di questi aspetti stilistici”.
Ci sono venute in mente le parole di un altro rilevante sacerdote spagnolo, don Julian Carrón, che potrebbero mettere d’accordo i credenti più accesi con i più scafati semiologi: “C’è un metodo più originario e fondamentale, che precede e rende possibile anche quello scientifico: consiste nell’intelligenza del segno, cioè nella capacità di cogliere i nessi tra le cose, di andare oltre quello che appare, di compiere il continuo percorso del segno fino all’origine, al significato. Solo così possiamo veramente conoscere. Solo se ci facciamo veramente colpire dal reale e seguiamo, siamo disponibili a seguire la sua provocazione, possiamo veramente conoscere la realtà nella sua totalità”.
Si tratta, dunque, di cogliere l’intelligenza del segno, cioè di seguire quelle orme nella neve lasciate da don Pablo. Ben si adattano alla storia di don Pablo, alla normalità di un uomo serenamente innamorato di Cristo, e a questo piccolissimo film che sta già facendo miracoli, le parole di Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”.
Raffaele Chiarulli