La madre è fredda e sprezzante con il ragazzino dodicenne taciturno (finché non scoppia con risposte irate), e si diverte a parlar male di lui perfino con due compratori della loro casa («piange per un nonnulla», dice davanti a lui). La casa è in vendita perché il matrimonio tra Zhenya e il marito Boris è finito. E forse non si sono mai amati, come lei stessa afferma: si sposò per scappare dal brutto rapporto con la madre; quel figlio, nato quando era giovanissima, non lo voleva e non l’ha mai amato. Anzi, il sentimento sembra l’opposto, un odio maturato fin dall’inizio («mi ha straziato dalla nascita»). Ora nessuno dei due coniugi – presto ex – vuole tenerselo, il povero Alyosha. Che capisce tutto, anche se loro due non hanno il coraggio di dirgli le cose come stanno. Ma ci vuol poco, tra urla e insulti. Dove finirà, in un collegio? E mentre i due pessimi genitori pianificano una vita che immaginano finalmente felice con nuovi compagni (Boris aspetta dalla giovane amante un secondo figlio, Zhenya spera di cambiar vita con un compagno molto ricco), il ragazzino decide di fuggire.
Davvero una durissima storia di famiglia “senza amore”, come da titolo e come da esplicita riflessione di un personaggio («non si può vivere senza amore»): marito e moglie accettano con noncuranza il fallimento del matrimonio (al marito interessa solo non farlo sapere nell’azienda causa rigide regole dei capi ferventi ortodossi, la moglie vuole solo chiudere una storia in cui non ha mai creduto) e pensano di “rifarsi” nei nuovi rapporti che vanno a costruire. L’impressione è però di accanite fughe da una realtà insopportabile, ma anche di due persone così piene di sé da non poter sperare di trovare amore altrove. E soprattutto di saperlo dare. Andrey Zvyagintsev, regista russo che si rivelò nel 2003 con il notevole Il ritorno (opera prima che a sorpresa vinse il Leone d’oro a Venezia) e di recente aveva realizzato l’altrettanto duro Leviathan, mette in campo tutto lo stile visivo di cui il suo talento è ricco, ma anche il consueto tono esistenziale tipico del miglior cinema russo. Con Loveless, Premio della Giuria a Cannes, mette sotto accusa non solo due adulti egoisti e immaturi fino alle conseguenze peggiori, ma una società russa che sembra davvero alla deriva, in cui nessuno o quasi (gli unici che si salvano sono i volontari che cercano Alyosha) sembra interessarsi al bene degli altri. Nel farlo, propone alcuni momenti di un’intensità quasi insostenibile (c’è una scena di pianto disperato del ragazzo – di notte, in silenzio, di nascosto dai genitori – che smuoverebbe anche una pietra; senza parlare dell’epilogo), che pur non inficiando il valore del film sicuramente ne consigliano la visione solo a un pubblico adulto e maturo. E in grado di accettare la sfida di una visione sicuramente forte dal punto di vista emotivo. Ma a chi accetta la sfida, il film rimarrà impresso nella memoria come uno dei film più morali degli ultimi anni: anche nel 2017, i bambini ci guardano e ci giudicano.
Antonio Autieri