Walter ha più di sessant’anni, un lavoro in università che è diventato una routine, una moglie pianista scomparsa e un figlio che non vede mai. Vive in uno stato di continuo isolamento interrotto soltanto dalle note di un pianoforte che non riesce a suonare. Quando, per lavoro, si trasferirà a New York, troverà nella propria abitazione un immigrato clandestino con cui pian piano comincerà a condividere tutto.
Non tanto un film contro: contro l’America che rigetta gli immigrati, ma un film nel nome dell’accoglienza e della possibilità di cambiare. Thomas McCarthy, al secondo film, mantiene toni e registro molto bassi: i sentimenti non sono mai gridati; il dolore vive nell’intimo dei personaggi. È una scelta che ci piace, piena di rispetto e anche di amore per la propria storia e per i propri personaggi, e quindi amore per la realtà, questa discrezione nel raccontare il cuore dell’uomo colmo di dolore per la perdita dei propri cari. La prospettiva, pur nel dramma che pare a volte insensato, è positiva: la strada per affrontare il dolore è una calda compagnia umana e magari un aiuto può arrivare persino dalla persona apparentemente più lontana, un visitatore sconosciuto, estraneo con cui però condividere esigenze, passioni, desideri e tristezza.
L’ospite inatteso (ma il titolo originale, The Visitor, è molto più significativo) ha due grandi pregi: uno splendido protagonista, Richard Jenkins, caratterista di lungo corso a cui andrebbe riconosciuta almeno una nomination agli Oscar, e uno stile sobrio che racconta senza rancore le contraddizioni dell’America come terra di libertà e solitudine. Nel cast anche Hiam Abbas, grande attrice palestinese ormai di casa nei film internazionali.
Simone Fortunato