Un bambino prodigio di 10 anni, che vive in un ranch isolato nel Montana con la sua famiglia molto particolare, attraversa l’America di nascosto per ritirare un importante premio scientifico.
Recensione
T.S. Spivet è un ragazzino molto originale, fin dal nome (T.S. sta per Tecumseh, nome di capo indiano, Sparrow come il passero raccolto dalla sorella quando lui nacque): ha una spiccata intelligenza e curiosità, che lo portano a infilarsi in un’aula universitaria a 7 anni e, dopo aver ascoltato un professore lanciare la sfida agli allievi, a studiare una macchina per realizzare il moto perpetuo. Il suo talento, che lo vede osservare dal suo ranch animali e spazi naturali e tradurli in ipotesi di lavoro, non viene compreso da una famiglia – dei nostri giorni ma che sembra fuori dal tempo – in cui ogni componente, molto particolare, sembra troppo preso da se stesso: il padre, taciturno, si sente un cowboy nato troppo tardi per vivere l’epopea del West; la madre, con la testa tra le nuvole, è una studiosa sempre in cerca di un coleottero non ancora scoperto e che forse non esiste; la sorella maggiore Gracie sogna di evadere e di approdare al mondo dello spettacolo; il fratello gemello Layton, prediletto dal padre, ha la passione precoce per le armi da fuoco. Un evento drammatico, di cui nessuno vuol più parlare, cambierà per sempre la vita di quella famiglia. Finché una telefonata inaspettata, dal celeberrimo Istituto Smithsonian di Washington, annuncia la vincita di un prestigioso premio scientifico per colui che ha inviato un rivoluzionario progetto, proprio una macchina per il moto perpetuo. Ma gli accademici non sanno che il vincitore è proprio il piccolo T.S. Che, senza dir nulla ai genitori, una mattina partirà per un viaggio attraverso gli Stati Uniti alla volta della Capitale, per ritirare il premio e fare un discorso di ringraziamento. Tra fughe, nascondigli, incontri con persone strampalate, sarà un’avventura lunga e piena di ostacoli.
Dal romanzo Le mappe dei miei sogni, prima prova del giovane scrittore americano Reif Larsen, il regista francese Jean-Pierre Jeunet si avventura in un territorio visivamente e culturalmente diverso dal suo, pur in un film di produzione francese (e canadese); e anche se non è la prima volta che lavora fuori dalla Francia (diresse il quarto episodio di Alien). C’è sempre il suo tono surreale e il suo stile originale e colorato: voce narrante, gusto nel gestire gli snodi delle esistenze secondo una “matematica” delle coincidenze che fa pensare a un destino ma anche una grazia e una levità apparente sotto cui si celano spesso drammi e angosce dell’esistenza. Era così perfino nel sorridente – e suo maggior successo – Il favoloso mondo di Amélie, e tanto più nel commovente film sentimentale in tempo di guerra Una lunga domenica di passione, mentre con L’esplosivo piano di Bazin il gioco era più marcatamente action e comico, ma sempre di gran classe. Stavolta sembra giocare un po’ in trasferta, in tutti i sensi: forse per le dimensioni del romanzo di partenza (oltre 400 pagine), ma la mole di episodi, incontri, avvenimenti appare un po’ accumulata e confusa, mai davvero significativa, con una costruzione troppo meccanica – affidata, per una volta, troppo alle parole rispetto alla consueta preferenza di Jeunet per un predominio di immagini e musiche – per risultare davvero scorrevole. Passaggi drammatici troppo bruschi e scoperte decisive ma non sempre ben sottolineate scivolano dunque un po’ via, mentre sul finale il rischio è di far scadere tutto nella farsa e nella facile sociologia sui media (quando Spivet diventa una celebrità). E se il finale, pur con qualche patetismo di troppo, ricompone molto, se non tutto (perché tutto è impossibile), e alcuni momenti sono sicuramente toccanti (come le sue considerazioni rispetto ai litigi dei genitori, che comunque si amano «se hanno fatto tre figli insieme»), il tutto rimane grazioso, simpatico, presentabile anche – volendo – a bambini e famiglie. Ma mai davvero del tutto convincente. Un tentativo riuscito a metà: ed è un peccato, perché i pregi sono parecchi, a cominciare da un cast che funziona su cui spiccano Helena Bonham Carter, che nei panni della madre porta la sua svagata eleganza, e il piccolo protagonista Kyle Catlett (che si è diviso durante le riprese con la sua prima serie tv, The Following), così giovane ma già capace di tenere la scena con sicurezza. Soprattutto, un personaggio come T.S. Spivet, davvero originale e ben ideato, meritava una realizzazione più spigliata, coraggiosa, forse anche un po’ folle. Ma si conferma che per gli autori europei non è facile girare film in Nord America, tra condizionamenti produttivi, fascinazione dei grandi spazi e perdita delle proprie sicurezze.
Antonio Autieri