In una calda estate, nella campagne friulane ai bordi del Tagliamento, il giovane Giacomo vive un momento di passaggio. Prima lo sentiamo battere con tutta la forza che ha i tamburi, e da dietro la regia ci fa notare un apparecchio acustico: Giacomo è sordo, non totale (le note di regia ci dicono che ha appena riacquistato l’udito, ma il film questo non lo dice) e ha quei difetti di linguaggio tipici di chi fin dalla nascita ha avuto quel problema. Lo vediamo poi, in una lunga camminata nel bosco con la bella Stefania: i due hanno un rapporto particolare, a volte apparentemente distratti l’uno dall’altra se non infastiditi, più spesso attirati reciprocamente; si stuzzicano, si prendono in giro, vorrebbero tutto ma non sentire pressioni su di sé. A un certo punto sembra scoccare l’innamoramento (e ci sono belle sequenze al luna park, a una festa di paese, ancora al fiume) ma è soprattutto scoperta di sé, delle proprie pulsioni: per una vera storia ci vuole altro. E altro non ci sarà – come un dialogo tra i due fa intuire, forse il momento più intenso del film (“tu non sai apprezzare le piccole cose”) – se negli ultimi minuti del film vediamo comparire un’altra ragazza con Giacomo, e con i suoi stessi problemi di udito. E anche di cuore. Anche con lei, si intuisce, non sarà facile andare oltre le pulsioni.
Il regista Alessandro Comodin si è formato in Francia con corti e documentari. E anche questo film del documentario ha parecchio: nel modo di riprendere la natura, le persone, le situazioni sociali (la festa da ballo). La formazione francese si sente: Comodin sta addosso ai suoi personaggi come un Rohmer giovane. Ma sembra contare troppo sulle proprie, indubbie, capacità. E si dimentica troppo spesso di fare cinema: ci sono lunghe, troppo lunghe, scene in mezzo ai boschi, nel fiume, alla festa da ballo che esasperano per lunghezza e mancanza di montaggio, e sprecano intuizioni fulminanti (l’ebbrezza del giro in giostra). E così, un film molto breve (solo 78 minuti) può sembrare infinito a un pubblico che non sia più che ben disposto.
Poi, dicevamo, il talento e indiscusso come confermano i premi ai tanti festival cui il film è passato, tra cui Locarno 2011. Ma vorremmo rivedere il regista alla prova con un film vero, una sceneggiatura vera, una storia vera. E vedere cosa riesce a cavarne fuori. Fare il film di nicchia, sperimentale, attira consensi critici e premi, ma non porta molto lontano. Se il modello è Rohmer, bisogna ricordare che il grande vecchio del cinema francese scomparso nel 2010 faceva veri film, bellissimi, non operine interessanti quale ci sembra sia L’estate di Giacomo.
Antonio Autieri