Il titolo originale Micmacs à tire-larigot è un’espressione idiomatica francese non facilmente traducibile in italiano (letteralmente potrebbe suonare “gabole” – o, a seconda dei dialetti, “sgamuffi” o “babbuffi” – a più non posso) e i traduttori italiani hanno pensato bene di recuperare – anche in chiave commerciale – un’assonanza con il titolo più famoso del regista, quel Favoloso mondo di Amélie con cui pure questo film ha dei punti di contatto. Se Amèlie celebrava la poesia delle piccole cose, Bazil celebra la poesia dei “piccoli” (dei “sommersi”, direbbe Primo Levi), dei diseredati della terra, un manipolo di strampalati antieroi che vive delle briciole cadute dalle tavole dei potenti. Tra i bidoni della spazzatura, in un sottosuolo parigino reinventato come mondo grottesco e fiabesco allo stesso tempo, vive una piccola comunità di spiantati (di “freaks”, direbbero i critici cinematografici) tutti con un dono particolare. Sotto l’ala protettiva e un po’ manesca di Tambouille, donna materna e abile cuoca, si rifugiano un vecchio graziato dalla pena di morte per aver fatto fallire una ghigliottina, un africano che parla solo attraverso modi di dire, un uomo proiettile entrato nel Guinness dei primati, una timida ragazza col bernoccolo della matematica, un’agilissima contorsionista e altri ancora. Bazil è il commesso di una videoteca che, coinvolto suo malgrado in una sparatoria tra malviventi, si ritrova con un proiettile conficcato in testa e, sopravvissuto all’incidente, perde oltre a diverse rotelle, anche il lavoro. È allora che viene reclutato in questa bizzarra squadra in cui, gli dicono, tutti devono aiutare tutti, altrimenti non si sopravvive. Così l’uomo, sostenuto e allevato in questa comunità di perdenti, impara una verità fondamentale, cioè che ognuno di noi è al mondo per uno scopo. Bazil trova il suo il giorno in cui, percorrendo una strada della città, scopre che di fronte all’industria di pistole da cui è uscito il proiettile che gli ha fritto il cervello, troneggia la fabbrica di mine anti uomo che trent’anni prima gli ha portato via suo padre in Algeria. Più che una coincidenza è un segno: allora forse vale la pena prendere due piccioni con una fava.,Se dovessimo riassumere il film in una formula, potremmo dire che L’armata Brancaleone incontra Ocean’s Eleven. Jean-Pierre Jeunet, insieme al fido sceneggiatore Guillame Laurant, propone una favola moderna ottenuta con materiali di recupero anche se la sua mano, come spesso gli accade, non è proprio leggera (nel prologo, per esempio, si presenta l’educazione cattolica come tra le responsabili dell’infelicità del protagonista, anche se va detto che è una scena talmente rapida che ce ne si dimentica presto). Il bersaglio del film – i mercanti di armi che seminano morte e speculano sul sangue versato dagli altri – è quello giusto anche se forse un po’ troppo programmatico per evitare una certa pesantezza di fondo. Da notare infine come il cinema francese continui, sia pure come qui solo con rapidi accenni, a riflettere su certe svolte politiche degli ultimi anni facendo riferimento sempre più frequentemente al suo passato coloniale (una sorta di peccato originale incancellabile che emerge in diversa misura in film come Niente da nascondere o Nemico pubblico n.1). A questo piano esplosivo, che è orchestrato davvero bene (regia, sceneggiatura, montaggio e fotografia sono perfetti) e che è pieno di personaggi originali e divertentissime gag soprattutto visive, manca allora solo un po’ di grazia. ,

Raffaele Chiarulli