Che tipo sia Fabienne lo capiamo dalla prima scena, dove la stagionata diva del cinema francese è alle prese con un’intervista, che conduce con aria svagata (ma anche caustica verso altre attrici). Subito dopo arriva nella sua grande casa la figlia Lumir, con marito e figlia al seguito, direttamente da New York: a farla arrivare di corsa a Parigi l’imminente uscita dell’autobiografia della madre, che la agita parecchio. Cosa ci sarà scritto? Quali rivelazioni (o omissioni) ci saranno, con il rischio fondato di peggiorare i rapporti già non idilliaci tra le due donne? I giorni passati insieme, mentre Fabienne è impegnata su un nuovo set, sarà l’occasione per un serrato confronto in cui segreti, rancori, verità o presunte tali verranno alla luce…

Film inaugurale della 76a Mostra d’arte cinematografica di Venezia e del concorso ufficiale, Le verità (titolo italiano che, chissà perché, sposta al plurale l’originale e singolare La vérité) è il primo film internazionale diretto dal maestro giapponese Kore-eda Hirokazu, per la prima volta impegnato fuori dalla sua patria. Il risultato all’inizio ricorda un po’ l’impressione di certi film di analoghi autori che allontanandosi dal loro paese – pensiamo a certi film europei degli iraniani Kiarostami o Farhadi – perdono un po’ della loro forza, forse persino della loro anima; e il personaggio interpretato da C parrebbe troppo simile a tanti altri suoi ruoli svagatamente e deliziosamente cinici ma un po’ ripetitivi. Alla lunga, però, avvince questa storia su questa madre e diva che ha un serio problema di rapporto con la realtà e con le persone vicino a lei; o meglio, che crede che la finzione, spesso, sia decisamente meglio. Senza contare il tempo che passa. Ed è bello anche il personaggio della figlia sceneggiatrice Lumir (un’ottima Juliette Binoche) che si è trasferita a New York con il marito Hank, attore americano di serie B; le schermaglie tra le due donne non solo l’ennesimo saggio di bravura delle due attrici parigine, ma disegnano un rapporto complesso, sofferto, raccontato con la sensibilità dell’autore nipponico.

Lo sfondo è da un lato il libro di memorie della diva, che ha mentito spudoratamente come in tutta la sua vita, dall’altro il film di fantascienza che sta girando che si intitola proprio La vérité incentrato anch’esso su una madre e una figlia, divise dalla malattia degenerativa della genitrice che per sopravvivere è costretta a vivere nello spazio tornando sulla Terra ogni 7 anni per non invecchiare (e alla fine, la figlia è anziana e la madre ancora giovane). Verità che sembra non interessare alla protagonista, più tesa ad affermare sé (anche in contrasto con le colleghe, del passato o del presente: strepitosa la smorfia che fa al sentir citare Brigitte Bardot….) chatherine Deneuvee le persone che ha accanto; come il fedele segretario Luc, che a un certo punto non ne può più e scappa. La vicinanza tra Fabienne e la figlia riapre tutte le vecchie ferite del passato: c’entra anche la gelosia della diva per una giovane amica attrice, morta troppo presto, che la piccola Lumir sembrava preferire alla madre; ma soprattutto la scelta di Fabienne di aver messo il Cinema e la recitazione in primo piano, trasformando alcune gravi sofferenze in arte, anche a rischio di mentire continuamente («Ho preferito essere una cattiva madre e una brava attrice»). Eppure, il confronto ravvicinato e serrato può forse riaprire la partita del loro rapporto.

Come si diceva, con Le verità Kore-eda usa qui uno stile lontano dai suoi film che abbiamo conosciuto (Father & Son, Little Sister, Affari di famiglia); non sapendo chi sia il regista, lo si prenderebbe anzi per il classico film francese, grazie a dialoghi raffinati e pungenti. Ma al pubblico, che forse lo apprezzerà, non dovrebbe interessare. Ma la profondità è la stessa, solo ammorbidita da una leggerezza che non diventa mai vacua. Ottimo tutto il cast, con citazione anche per Ethan Hawke nel piccolo ma azzeccato ruolo del marito americano di Lumir, che sa benissimo di essere un attore mediocre; e non ci soffre. Ma Le verità conquista anche per la “tenuta”: in un cinema in cui troppi film sprecano temi iniziali pur interessanti, l’autore giapponese trova sempre il modo di sviluppare – anche grazie ad alcuni momenti molto felici tra cui i dialoghi tra la diva e la nipotina, quelli con il genero americano o con lo storico collaboratore, le scene emozionanti del film nel film) e poi chiudere al meglio una storia. Qui lo fa con classe e leggerezza, chiudendo in maniera sospesa che non lascia solo con un simpatico interrogativo rimasto aperto ma con un bel respiro di libertà concesso ai suoi personaggi.

Antonio Autieri