E sono sessantacinque! Mario Monicelli, lanciando nelle sale Le rose del deserto, tocca l’incredibile soglia di sessantacinque lungometraggi realizzati, a cui bisogna aggiungerne altri venti se si considerano anche i lavori realizzati come sceneggiatore.,Una pietra miliare del cinema italiano dunque, che ci ha lasciato capolavori come I soliti ignoti o La grande guerra. A fronte di una produzione così eterogenea e di livello così alto, dunque, che bisogno c’era, a più di novant’anni e a quattordici dall’ultimo, realizzare un film così approssimativo e scombinato?,Tratto da un libro di Mario Tobino, suo (quasi) coetaneo e conterraneo, Le rose del deserto si muove tra quella che il regista definisce “la sabbiaccia” del deserto libico, popolato per l’occasione da una scombinata brigata medica dell’esercito italiano, oltre che da più o meno coloriti villici locali. ,Monicelli ne rivendica “la cifra leggera e ironica”, suo patrimonio registico da sempre, e si compiace del cast assemblato per l’occasione, uno dei pochi motivi di vanto della pellicola.,Si alternano sullo schermo Alessandro Haber, Michele Placido e Giorgio Pasotti, trio di attori di elevata qualità. ,Anche loro però, pur emergendo qua e là con la propria forza attoriale, finiscono soffocati dall’approssimazione alla quale viene ridotto tutto il girato. Monicelli gira e rigira attorno allo stereotipo dell’”italiano brava gente”, dell’ingenuità, dell’abnegazione e della gigioneria della truppa rispetto all’obesa arroganza dei propri politicanti, dei propri generali. Se Pasotti incarna perfettamente il classico tenentino acqua e sapone, misuratamente buono e razionale, invaghito della bella ragazza del posto, Haber raffigura lo stereotipo dell’ufficiale superiore apatico e sognatore, attaccato visceralmente al ricordo della propria terra, della propria casa, attraverso la figura catalizzatrice della moglie.,Sin dalla prima sequenza il film s’innesta su questa dinamica strutturale, con un batti e ribatti su uno scaricamento di responsabilità reciproco all’interno della gerarchia militare, e la esaspera man mano che procede nella narrazione, fino ad arrivare alla grottesca figura del generale, interpretato da Tatti Sanguinetti. Il meccanismo regge fino a un certo punto, e soffre del reiteramento della stessa architettura nelle varie sequenze in cui si struttura.,Ne soffre, di conseguenza, il montaggio, che fatica a tenere assieme la frammentazione di un impianto che si rivela disunito e, a tratti, non coerente.,Sicuramente, lo sappiamo, ci sono le attenuanti di una produzione difficoltosa e di un budget non adeguato alle ambizioni (anche se nove milioni di euro oggi non si concedono proprio a tutti), ma ci sembra che le pecche risiedano altrove, in una debolezza generale d’impianto e d’intenti che minano il film, anche visivamente.,Non ci resta che attendere il sessantaseiesimo. Che la palindromia ci restituisca un Monicelli di livello?,
Pietro Salvatori