La vita in fabbrica è dura: i turni sono massacranti e incombono i licenziamenti. Olivier, temperamento generoso e capoturno rispettato, cerca di difendere un collega che l’azienda vuole licenziare perché fisicamente «non ce la fa più». Ma poi non ha ancora il coraggio di avvisarlo; e quando succede la tragedia se ne dà la colpa. In casa apparentemente va meglio, con due bambini adorabili e una madre che li accudisce tutto il giorno, in attesa del suo ritorno. Ma ci sono avvisaglie di qualcosa che non va: cosa sono quelle scottature sul corpo del primogenito? Eppure è un fulmine a ciel sereno la decisione della moglie Laura (fragile e depressa) di andarsene, forse per prendersi una pausa, nonostante l’amore per i piccoli Eliot e Rose, e per lo stesso marito cui non imputa nulla, nemmeno il poco tempo in casa per via del lavoro. Cosa ha scatenato la sua decisione? Soprattutto, tornerà?

Presentato come evento speciale alla Semaine de la Critique di Cannes 2018, e vincitore del Premio del Pubblico e del Premio Cipputi (sulle tematiche del lavoro) al Torino Film Festival, Le nostre battaglie è il secondo lungometraggio di Guillaume Senez (il primo fu Keeper, rimasto inedito in Italia nonostante parecchi premi vinti in giro per il mondo fra cui a Locarno, sempre al Festival di Torino e al Fiuggi Film Festival). Sulla scia di un cinema contemporaneo in cui i temi del lavoro e della famiglia si traducono sempre più spesso in fatiche, nevrosi, talvolta vere e proprie sconfitte, Senez mette in primo piano un uomo che fa di tutto per tenere i vari pezzi della sua vita: il lavoro, dove il suo senso di giustizia lo fa scattare a ogni sopruso subito dai colleghi (lui – tentato dall’impegnarsi ancora di più nel sindacato ma poi frenato da quanto successo – in teoria non rischia nulla, ma è sempre sul punto di perdere il controllo e reagire in maniera scomposta e autolesionista); la famiglia, dove l’aiuto della madre è prezioso ma non sufficiente, a fronte della fragilità della moglie che pure difende da critiche e sospetti altrui (per esempio relativamente alle scottature di Eliot, causate da un incidente domestico); poi solo i figli, quando Laura se ne va all’improvviso senza avvisare e senza dare alcuna notizia di sé. Salvo una lunga lettera ai figli in cui nemmeno lo cita, mentre con il passare del tempo il suo amore per lei rischia di svanire. Perché il film è una battaglia di Olivier – interpretato da un bravissimo Romain Duris – non solo per non venire meno di fronte a una situazione che diventa quasi impossibile, tra lavoro e cura dei figli nonostante la solidarietà concreta di chi sta attorno a lui (all’aiuto della madre, che pure lavora ancora, si aggiunge quella della sorella attrice: un bel ritratto di rapporto fratello-sorella che si amano e battibeccano su ogni cosa); perfino quello dei due bambini (molto bravi anche i piccoli attori), che ovviamente soffrono tanto ma pure aiutano il padre come possono. Ma la lotta di Olivier è anche più profonda: perché l’amore per Laura non si traduca in risentimento e odio per la sua incomprensibile sparizione, su cui nemmeno la polizia – essendo una scomparsa volontaria – può far nulla. In questo senso la tentazione è buttarsi tra le braccia di una collega che stravede per lui; ma è una soluzione di una sera, che non riesce ad acquietarlo.

Riservato a chi al cinema non rifiuta la sofferenza – e che può essere premiato da una storia ricca di dettagli e sfumature sulle fatiche umane di persone vere, che possiamo trovare vicino a noi: e che fanno del belga Senez quasi un Dardenne moderno, con uno stile meno rigoroso ma accessibile a tutti – Le nostre battaglie denota sensibilità e capacità narrative che fanno ben sperare per il futuro di questo autore quarantenne. Che sa toccare le corde giuste per intenerire gli spettatori in parecchie scene. Come quando una bambina, che si rifiuta ormai di parlare, si prende però cura – letteralmente – delle ferite del fratello; o quando i due bambini prendono la folle iniziativa di andare a cercare, da soli, la madre. Soprattutto ci regala un meraviglioso tocco finale, vero colpo d’ala di un film a tratti un po’ “chiuso”, in cui la decisione obbligata di cambiare casa si accompagna a un miracoloso gesto di attenzione per chi non c’è più, e potrebbe decidere di voler tornare. Offrendo una prospettiva nuova al dolore, che può essere accompagnato dall’amare la libertà dell’altro, e trovando la forza di continuare a sperare.

Antonio Autieri