Si inizia come nella migliore tradizione del cinema americano, da Viale del tramonto ad American Beauty, con la voice over dell’affascinante bionda Blake Lively (un passato televisivo alle spalle e almeno una gran bella interpretazione al cinema in curriculum, in The Town), che alla fine della storia potrebbe essere morta oppure no… E si procede spesso in questo modo, con la bionda protagonista che ci deve fornire informazioni e interpretazioni più o meno utili sulla vicenda.

La bionda narratrice, Ofelia detta O., è il felice vertice di un miracolosamente equilibrato menage à trois con Ben e Chim, prestanti fusti californiani titolari di un lucroso commercio di marijuana, con ramificazioni legali (cura del dolore, in California è permesso) e meno legali, sotto l’occhio complice di un agente della DEA con moglie malata di cancro. Dei due Ben è un idealista dalla vaga spiritualità buddista che investe parte dei suoi guadagni per far studiare i bambini del Terzo Mondo e passa settimane in Africa ad insegnare a usare i computer ai bambini dei villaggi. L’altro, Chim, è un reduce dell’Iraq con i fantasmi post-traumatici di rito: entrambi trovano il sospirato nirvana nelle braccia accoglienti della bionda e con abbondanti dosi della loro stessa merce. Sarà forse, quello dei tre, il Paradiso perduto ritrovato sulle coste del Pacifico, quindi, ma non è destinato a durare, perché il feroce Cartello messicano capitanato dalla “madrina” senza scrupoli Elena ha deciso di mettere le mani su questa brillante “start up” e lo fa con la stessa mancanza di scrupoli (e con qualche testa mozzata in più) con cui una multinazionale si mangia una piccola azienda (l’analogia è esplicita, Ben e Chim stanno all’erba come Steve Jobs sta ai computer). Anche le trattative, a parte la merce in gioco, non sono poi molto diverse da quelle delle grandi acquisizioni internazionali, avvocato compreso.

Visto che, però, i due fusti non capiscono subito l’antifona, la messicana fa rapire la bionda dal suo uomo di fiducia, Lado, violento e con più di un’ombra di follia (Benicio Del Toro, ultracompiaciuto nella parte). A questo punto anche Ben lascia perdere le pose filosofiche e lui e il compare mettono in campo tutta la loro astuzia e violenza (sì, anche il buddista…) per recuperare la bella Ofelia. Di qui un fiume di sangue, equamente distribuito di qua e di là del confine fino a uno scontro finale in stile western.

La trama è da un film di azione, che in effetti è abbondante, ben girata e convincente. Il lato meno convincente di Le belve, in omaggio alla sua origine letteraria o per semplice snobismo, è rappresentato dalle sue ambizioni: siamo di fronte a una riflessione sulla perdita dell’innocenza? Una versione violenta di Jules e Jim o quella contemporanea di Butch Cassidy e Sundance Kid? Una sofisticata critica al capitalismo che ha conquistato anche il mondo del narcotraffico? Nel tentativo di stare dietro a tutte queste suggestioni il film perde un po’ del suo valore. Peccato, perché a tratti Oliver Stone ritrova la grinta di un tempo e il terzetto dei giovani attori (su tutti Aaron Taylor-Johnson) si fa apprezzare.

Laura Cotta Ramosino