La Ciotat è stata lo sfondo a uno dei primi film della storia, L’arrivo del treno alla stazione de La Ciotat dei fratelli Lumière, ma anche – un secolo dopo – il teatro di un decennio di lotte operaie nei cantieri navali che esistono ancora, ormai in disuso, nella cittadina della Provenza. Colossi di lamiera ormai morti, monumenti ad un capitolo di storia chiuso. Proprio in quei cantieri gli studenti di un workshop estivo di scrittura, tenuto dalla giallista di successo Olivia Dejazet, decidono di ambientare il loro thriller; perché quei cantieri sono segno di un passato che non appartiene più ai giovani di adesso. Una gioventù francese diversa da quella degli anni Ottanta, composta da molti immigrati e da ragazzi provenienti da storie culturali molto diverse. In questo piccolo gruppo di studenti c’è anche Antoine, tra tutti il più talentuoso, che però è spesso in lite con i compagni per le sue posizioni razziste e aggressive. Olivia è intrigata da lui e tra i due nasce un rapporto che piano piano andrà a scoperchiare tensioni e nervi irrisolti di entrambi.
Laurent Cantet torna con L’atelier, dopo 10 anni dalla Palma d’oro vinta dallo straordinario La classe, ad un altro microcosmo educativo dove emergono con violenza tutte le tensioni della Francia (e dell’Europa) di adesso. Lo fa in un film dalla scrittura di un thriller dove però la “tesi” sulla gioventù contemporanea è molto dichiarata e rischia di minare la narrazione del film. La sceneggiatura, scritta dal regista assieme ad un altro grande nome del cinema politico francese di adesso, Robin Campillo (autore di 120 battiti al minuto), parte da un’esperienza realmente accaduta al regista durante un seminario da lui tenuto e poi si evolve in cadenza di thriller psicologico ad apologo sociale e morale.
È assolutamente brillante la lucidità di sguardo quasi antropologico del regista, che disegna un ritratto preciso di quelle che sono le nuove generazioni senza essere mai nostalgico (dei tempi dell’impegno politico ad esempio) o ideologico. Cantet conduce la sua analisi senza mai negare anche ai personaggi più umanamente miseri un’umanità insospettabile, come nel bell’epilogo. D’altra parte però la chiarezza delle intenzioni di ritratto e analisi sociale appesantiscono la narrazione e il thriller perde tensione e ritmo. I dialoghi spesso sono troppo, troppo lunghi perché si sente l’esigenza di dover dire tutto di dover spiegare tutte le dinamiche di un certo modo di pensare, fino poi ad arrivare al finale (la visita notturna), troppo annacquato e non la conclusione migliore per le premesse portate dalla storia.
È quindi un film assolutamente interessante L’atelier, con una sua forza tematica e per la coerenza retorica con cui la tematica è sviluppata. Qualche perplessità invece sulla forza del racconto. La potenza che aveva La classe è ben lontana.
Riccardo Copreni