All’inizio, vediamo un delinquente di mezza tacca che, all’alba in un campo, conta i passi dove ha nascosto qualcosa: ma è confuso e si vede che non riesce a tenere a mente il punto preciso. Poi arriva la polizia e lo arresta. Cosa c’entri questa scena, lo capiremo solo a metà film. Sul momento il cambio è brusco: analizziamo la vita, annoiata e ripetitiva, di Elia Venezia, psicanalista ebreo (con tanto di barba bianca alla Freud) non praticante, separato della porta accanto e in buoni rapporti con l’ex moglie (non divorziano perché lui non vuole pagare avvocati e spese…), che gli fa il bucato ed esce con lui a teatro e a cena. Venezia maltratta i pazienti o li ascolta distratto, quando non si addormenta; e di nascosto mangia (troppi) dolci. Quando esagera, il corpo gli manda segnali inquietanti: il responso del medico è per lui odioso, dieta ferrea e, soprattutto, andare in palestra. Il primo impatto è infatti surreale, ma conoscerà una giovane personal trainer spagnola che si offre per sedute personali a domicilio (o all’aria aperta). Claudia, buffa e con mille casini (amanti, una figlia avuta da un compagno poi sparito), lo prende in simpatia e lo stimola in ogni modo a uscire dall’apatia. Intanto Elia è geloso di un misterioso nuovo accompagnatore della moglie, la quale forse si sta ingelosendo di Claudia… E poi ricompare il ladruncolo della prima scena, che ovviamente ha a che fare con Claudia…

Il terzo film di Francesco Amato è una deliziosa commedia che mescola riferimenti al cinema anglosassone e all’umorismo yiddish (l’autore ama molto – e come non capirlo? – Lubitsch, Wilder, Groucho Marx, i fratelli Coen, Mel Brooks, Woody Allen: e c’è un gustoso omaggio, per chi lo sa cogliere, al gioiello Broadway Danny Rose) con un’ambientazione molto romana, anche se sempre di estrazione ebraica: è la Roma del quartiere del “ghetto”, in genere utilizzata solo per film drammatici sull’Olocausto o i suoi superstiti (per esempio La finestra di fronte di Ozpetek) e qui invece calata nella realtà odierna del cinismo romano. Lo psicanalista reso con maestria da Toni Servillo si nega al rabbino ma finisce per cantare in sinagoga, subisce le angherie di una condomina che non vuole si usi l’ascensore di sabato, è parsimonioso fino alla tirchieria come da simpatico stereotipo reso fulgido da tante gag alleniane (e non solo), ed egoista inconsapevole. Di molti film di Woody c’è anche il meccanismo “giallo-rosa”, con il povero protagonista che deve subire le follie di una donna che lo mette in mezzo a mille pericoli ma ne subisce il fascino, vorrebbe allontanarla da sé ma non ne può più fare a meno. Qui però la vicenda si intreccia con quella del rapporto con l’ex moglie, una Carla Signoris in gran forma che tiene testa a Servillo e che disegna una donna generosa e intelligente. Ed è poi una grande sorpresa la spagnola Veronica Echegui, vera forza della natura perché rende bene il personaggio di Claudia, che entra nelle situazioni come un uragano o un elefante ma ha un sorriso che intenerisce. Forse qualche elemento è di troppo (la bambina nera è una soluzione un po’ troppo “vista”, ma la sua piromania scatena un paio di gag gustose), ma la coralità della storia regala altri personaggi ben scritti e momenti molto arguti: il solito villain di Luca Marinelli (ma qui addirittura balbuziente, e con traumi infantili…), una maestra possessiva – interpretata da Valentina Carnelutti – che vuol fare da madre alla bambina di Claudia, un paio di pazienti indimenticabili (l’odioso e il pavido, resi perfettamente da Giacomo Poretti e da Carlo De Ruggieri), il proprietario della palestra Pietro Sermonti… E ci sono pure lo slavo compare di Marinelli, un calciatore famoso con un segreto inconfessabile, un rabbino che ha il volto del grande Paolo Graziosi… Si vede che Amato sa dirigere e valorizzare i suoi attori, dopo aver consegnato loro un bel copione (scritto con Francesco Bruni e  Davide Lantieri): il regista, dopo il piccolo esordio con la commedia giovanile Ma che ci faccio qui! e il drammatico e non riuscitissimo Cosimo e Nicole (e in mezzo tanti documentari), regala al pubblico una commedia matura, anche di gusto internazionale (e infatti già venduta per uscire in varie nazioni), che mancava al cinema italiano nella stagione 2016/2017. Con una serie di battute cult (su tutte, quella del cinico psicanalista, per smontare l’ex moglie in uscita musical-galante: «Bandire il jazz è stata una delle poche idee buone del fascismo»), spesso affidate a un Servillo straordinario, finalmente in una commedia a tutto tondo dove sfrutta quei tempi comici già messi in mostra a teatro e al cinema in film “drammatici” (per esempio Viva la libertà o La grande bellezza), ma che qui può liberare totalmente. Parafrasando lo slogan usato a suo tempo per Greta Garbo, si potrebbe dire che finalmente “Servillo ride”…

E però Lasciati andare non è solo un divertissement, con tanto di comicità “di corpo” e momenti slapstick: già il tenero rapporto con l’ex moglie con cui l’amore non è mai venuto meno suggerisce spunti interessanti sulle relazioni coniugali. Ma intriga soprattutto lo strano incontro tra lo psicanalista serioso e la squinternata personal trainer, in cui sembra echeggiare un apparentemente superficiale “desiderio di leggerezza”, e che è invece l’aiuto reciproco a rimettersi in carreggiata, per poi riprendere a tornare sulla propria strada più sicuri.

Antonio Autieri