Per Gaia sembra una normale giornata di lavoro casalingo: impegnata a tradurre, in fretta, i dialoghi di un film cinese, viene convocata d’urgenza per un lavoro delicato e ben remunerato. Le stranezze e i misteri abbondano: viene prelevata da casa già mezz’ora dopo, viene bendata e portata in un luogo segreto, il committente non è chiaro ma “lavora per lo Stato” (polizia? Servizi segreti?)… Lei vorrebbe tirarsi fuori, soprattutto quando inizia il lavoro: tradurre un interrogatorio al buio, senza poter vedere chi c’è dall’altra parte del tavolo: il misterioso “signor Wang”. Saranno pure per la sua sicurezza che vengono prese queste precauzioni, come sostiene l’ambiguo e irascibile Curti, ma i toni delle domande sempre più accesi e anche le risposte strane del signor Wang (nome inventato da Curti), che sembra aver imparato bene il mandarino ma non essere un cinese. Ma allora chi è? Quando, angosciata dalla situazione, pretende di continuare il suo lavoro di traduzione a luce accesa, avrà un’enorme sorpresa…,Pochissimi ambienti – soprattutto il bunker dove avviene l’interrogatorio – e pochi attori, su cui spicca un Ennio Fantastichini costretto in un ruolo esagitato e senza sfumature, vari colpi di scena e un tono da apologo che ricorda la fantascienza di serie B degli anni 70, con tanto di finale a effetto. Il problema non è la ristrettezza di mezzi, che potrebbe essere un valore aggiunto, ma la pochezza di idee e di dialoghi in un film che sembra un corto del genere “apocalittico” – come se ne vedono in molte rassegne – allungato a 80. Che pur essendo una durata molto ridotta per un lungometraggio, è comunque eccessiva in un film pieno di ripetizioni (le domande insistenti dell’interrogatorio con risposte, anch’esse sempre uguali, giudicate menzognere di Wang), recitazione non all’altezza e numerose banalità (il cellulare lasciato alla ragazza in un bunker così segreto, la chiamata ad Amnesty International, certe spiegazioni didascaliche, la fragile ragazza che scaraventa a terra un omone di due metri…). La claustrofobia degli ambienti più che sui personaggi alla fine pesa sullo spettatore. E il finale a sorpresa (ma fino a un certo punto), che spazza via tutto l’impianto basato fino a quel momento su pregiudizio e tolleranza rispetto alla “diversità” e potrebbe essere almeno l’unico guizzo, lascia davvero l’impressione di un apologo con grandi ambizioni ma gestito malamente. I Manetti Bros., come si firmano pomposi i due fratelli quarantenni Marco e Antonio Manetti, da anni si considerano eredi di una gloriosa tradizione di genere che in Italia ha avuto un suo perché, e altrove ha dato anche risultati maggiori, ma in questo film di fantascienza a basso budget non riescono mai a convincere. Non è il talento che manca loro, come dimostrarono nel precedente e interessante Piano 17 (ma sono più prolifici in videoclip e serie tv). Ma L’arrivo di Wang è un film dove abbondano superficialità e pressapochismo: come se un’idea, pur potenzialmente buona, non dovesse essere sostenuta da sceneggiatura, dialoghi, caratteri definiti, interpreti.,Antonio Autieri

L’arrivo di Wang
Una traduttrice è convocata d’urgenza per un lavoro misterioso: chi è il signor Wang?