Geum Ja finisce in prigione per il rapimento e l’uccisione di un bambino di buona famiglia ma è innocente. Al momento della sua scarcerazione si dedica anima e corpo alla pianificazione della sua vendetta nei confronti del vero colpevole.
L’ultimo capitolo della trilogia del regista coreano Park Chan Wook sulla vendetta è l’ennesimo pugno nello stomaco. Pur mantenendo una certa continuità, stilistica oltre che tematica, con i precedenti episodi (Simpathy for mr. Vegeance e Old Boy ), si distingue almeno per l’esito diverso della riflessione sulla vendetta, vuoi perchè la protagonista questa volta è una donna, vuoi perchè, lo si dica o no, l’happy end ha ancora un indiscutibile fascino. Comunque sia, questa volta il tremendo percorso catartico della protagonista, alla ricerca di una purezza inizialmente rifiutata, ha una sua conclusione e un suo appagamento nell’innevato finale, appagamento che veniva drasticamente rinnegato al tormentato Oh Dae Soo di Old Boy. Ma chi è Geum Ja (la bellissima eroina interpretata dalla diva coreana Lee Young-Ae)? Senza dubbio si tratta di una donna in cui convivono forti contraddizioni che hanno l’aspetto di una ferita aperta e sanguinante: la ricerca di una purezza (che è la ricerca del bianco del finale) deve convivere con l’impossibilità a perdonare: non c’è pace senza purezza, e al contempo, non c’è pace senza vendetta. E allora il bianco candido dell’incarnato si deve venare di rosso (l’ombretto agli occhi per “sembrare più cattiva”) e ammantare di nero (il tenebroso impermeabile in pelle). La dolcezza con cui tratta le compagne di carcere, anche quelle che odia, è il contrappunto paradossale di una determinazione maniacale e algida, che non teme il delitto. Come accadeva per il protagonista di Old Boy, la sete di vendetta diventa l’unico motore delle azioni del personaggio. La dinamica con cui il sentimento di rivalsa muove i personaggi è simile a quella di un amuleto malefico che, se da un lato infonde una forza disumana in chi lo porta, dall’altro prosciuga la sua vita, e avvelena i rapporti con le persone che ama di più. Il maleficio sarà spezzato dall’amore genuino e semplice della figlioletta (un amore pre-morale, un legame di sangue più forte di ogni sentimento), in evidente antitesi con la contorta e macchinale logica della vendetta. Il gesto vendicativo, che dovrebbe, attraverso un nuovo delitto, restituire la giustizia al mondo, viene consumato secondo un rituale collettivo e disumano, in cui ogni singolo gesto è codificato: la vittima sacrificale, il capro espiatorio, è investita di tutti i peccati del mondo e punita secondo una straniante logica di preparazione, esecuzione e occultazione, in cui le piccole vite borghesi distrutte dalla violenza possono finalmente ristabilire la loro piccola giustizia. Quando poi, rivelando tutta la loro meschinità, i parenti scrivono su un foglio le loro coordinate bancarie per il risarcimento sei danni morali, l’unica ad accorgersi del vuoto che questa nuova violenza ha creato è proprio Geum Ja, nella sequenza più suggestiva del film.
Dal punto di vista stilistico il lavoro di Park Chan Wook è mirabile: la costante dei suoi film è un utilizzo metaforico dell’immagine che deve sempre suggerire (talvolta anche in maniera un po’ artefatta, è inevitabile) un piano ulteriore in cui si spende l’allegoria e in cui anche la più violenta e sanguinosa delle contraddizioni può essere sanata. La violenza, sempre eccessiva, fino alla ripugnanza e alla nausea, fa parte di un cammino di redenzione e catarsi che lo spettatore è invitato a fare insieme ai personaggi del film. Certo, i video delle esecuzioni dei bambini sono davvero troppo per la nostra sensibilità di fronte al dolore (che comunque è profondamente diversa da quella di un coreano), ma è proprio la crudeltà testimoniata da quelle immagini a richiedere la più feroce delle vendette. E attenzione perchè a chiedere vendetta non è solo la micro-comunità delle famiglie delle vittime, ma siamo anche noi, comodamente seduti al cinema e indignati dal male che abbiamo visto, e questo è proprio l’effetto a cui il film punta.
Eliseo Boldrin