In una New York moderna e interconnessa, Dan Fogelman imbastisce un dramma sentimentale sulla fragilità della vita e su quanto il dolore che l’attraversa sia in grado di connettere ogni essere umano in maniera inaspettata. Il tono non è molto distante da quello di This is Us, la serie tv di successo mondiale che ha portato Fogelman alle luci della ribalta, dotata dell’indiscussa capacità di evocare nello spettatore un forte senso di empatia verso le singole storie dei protagonisti, adeguatamente approfondite nelle tre stagioni dello show. La stessa atmosfera calda e famigliare viene costruita in La vita in un attimo, che ci presenta un cast corale di tutto rispetto, interprete di un gran numero di personaggi tutti in qualche modo protagonisti dell’intera narrazione.
L’incipit è curiosissimo e folgorante. Con un Samuel L. Jackson nei panni del narratore che si domanda quale sia l’eroe della sua storia, ci viene presentata la condizione di Will: uomo devastato dall’ossessione per la moglie, che all’interno di una seduta di psicoanalisi cerca di ricostruire i tratti salienti della sua vicenda con lei. La narrazione rientra subito all’interno dei binari classici del racconto in flashback, con tutto l’armamentario tipico della storia d’amore, dall’innamoramento alla conquista; in mezzo al fiume di sentimenti molte sono però le situazioni interessanti e ben costruite, dovute soprattutto al ritmo alternato tra passato e presente e ad un ottimo Oscar Isaac, che permettono allo spettatore di prendere fiato nell’avvicendarsi di storie raccontate con troppa frenesia per essere digerite come si deve.
Proprio all’interno di uno dei numerosissimi flashback il film proclama la sua tesi, enunciata diligentemente da Olivia Wilde – qui nei panni di Abby, moglie di Will – secondo la quale la vita stessa sarebbe il più inaffidabile dei narratori, teso a sviare e falsificare le piste con il solo scopo di sorprendere e sconvolgere il protagonista. A partire da questo momento iper-didascalico la soluzione del puzzle che seguirà non soltanto risulta prevedibile e semplicistica, ma chiude allo spettatore qualsiasi possibilità di lavoro e interpretazione sui personaggi e sulle vicende che ne intrecciano i destini. La seconda parte del film si sposta poi in Andalusia ed elegge quale nuovo eroe il piccolo Rodrigo, figlio di un raccoglitore di olive al quale il ricco Mr. Saccione – un Antonio Banderas da Mulino Bianco – ha affidato la gestione del suo terreno offrendo in cambio una casa e un sostentamento economico. Il copione a questo punto si ripete: scopriamo il passato dei genitori di Rodrigo, le ambiguità del proprietario dal passato tormentato, e molti altri piccoli dettagli che sarebbero stati benissimo in un altro film, ma che qui non sfuggono alla banalizzazione imposta dalla struttura d’interconnessioni della trama. Il finale s’intravede a miglia di distanza, e l’approdo della parabola tematica non può che puntare sulla forza dell’amore come motore per una vita migliore. Un’ipotesi di certo non banale, ma resa tale dal pasticcio di cliché e dalla mano pesante dello sceneggiatore, che rovinano i tanti dialoghi significativi e piccoli momenti intimi di quotidianità: gli unici, in fondo, davvero capaci di imitare la vita stessa.
Maria Letizia Cilea