La vetta degli dei è quella dell’Everest. Siamo nel 1994; il fotografo giapponese Fukamachi, in trasferta in Nepal, viene a sapere che lo scalatore Hobu Jôji sarebbe in possesso della macchina fotografica di George Malloroy e Andrew Irvine che nel 1924 per primi provarono a scalare la cima più alta del mondo. Si mette a indagare ma Hobu sembra introvabile; Fukamachi lo troverà alle pendici dell’Everest, pronto per tentare l’impresa della vita…
Patrick Imbert sceglie l’animazione per trasporre a livello cinematografico il manga di Jiro Tanigouchi. La vetta degli dei si configura di primo acchito come un’inchiesta giornalistica. Fukamachi si mette sulle tracce di Hobu; vuole conoscere di più della sua vita, capire come mai da anni non si abbiano sue notizie e. soprattutto, vuole entrare in possesso della macchina fotografica di Malloroy e Irvine che gli permetterebbe di realizzare uno scoop: i due alpinisti nel 1924, arrivarono o meno sulla vetta dell’Everest? Ma il film lentamente diventa un viaggio nella mente e nella psicologia degli scalatori: da cosa nasce il bisogno di mettersi così alla prova? Ambizione? Passione? Desiderio di essere i primi a raggiungere una determinata vetta o a percorrere tracciati sconosciuti? O forse, semplicemente, scalare diventa una ragione di vita della quale non si può fare a meno a anche a costo di sacrificare la propria esistenza? Nel film di Imbert si trovano un po’ tutte le risposte a questi interrogativi, con lo spettatore che si trova lui stesso al centro di una grande avventura umana.
Rispetto a un film di fiction, la scelta dell’animazione non toglie nulla all’impatto emotivo che si prova nel seguire le imprese che vengono descritte, i successi, le sconfitte e i sensi di colpa di chi perde un compagno durante una scalata. Presentato nella selezione ufficiale del Festival di Cannes 2021, La vetta degli dei è disponibile su Netflix.
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