Gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono l’epoca d’oro del cinema nostrano. Dopo gli ultimi singulti del Neorealismo, l’Italia diventava il secondo Paese al mondo per importanza nel cinema (dopo gli Usa). Rossellini, De Sica e Visconti erano in piena attività, Antonioni iniziava a stupire proprio in quegli anni, Bertolucci sarebbe venuto di lì a poco. La commedia all’italiana si imponeva di anno in anno con Monicelli, Germi, Totò. Sopra tutti troneggiava Federico Fellini. Se i suoi tre titoli maggiori, pietre di paragone per i cineasti di ogni generazione a venire, furono La dolce vita (1960), 8 e 1/2 (1963) e Amarcord (1973), il regista riminese già nel 1954 dava un fondamentale contributo alla storia del cinema con La strada. Fellini lavorò per molto tempo, accanto al suo fedelissimo cosceneggiatore Tullio Pinelli, alla costruzione di Zampanò e Gelsomina, realizzando una grande allegoria cristiana.

Gelsomina, ragazza con un cervello da bambina, abbandona la famiglia e si affianca al fenomeno da baraccone Zampanò. Da lui viene trattata malissimo, eppure lei rimane sempre lì, diverte ogni bambino, accoglie ogni particolare della realtà con stupore immenso, serve Zampanò come un monaco servirebbe un mendicante. Accetta i suoi insulti porgendo l’altra guancia, senza stancarsi di gettare nel cuore di quel folle uomo un seme di amore e compagnia. Quando si scoraggerà credendosi inutile, incontrerà qualcuno che le dirà che tutto in questo mondo serba un senso nascosto. Persino un sasso, o una ragazza minorata. Quell’uomo arriverà genialmente all’intuizione che seppure non sappiamo precisamente «a cosa serva questo sasso, a qualcosa deve pur servire. Perché se questo sasso è inutile, allora è inutile tutto. Anche le stelle. Anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tua testa da carciofo». E lei, donna amorevolissima, tornerà ad amare Zampanò. Lui l’abbandonerà, la rinnegherà, come un demone senza meta compirà atti immondi. Pian piano però quel seme crescerà in lui e il senso di quell’amore incondizionato si rivelerà nel finale, in un pianto di pentimento che (forse) è il primo sbocciare del seme, futuro frutto di una redenzione ora possibile grazie al “sacrificio” di lei.

Dall’inizio alla fine della storia permane l’immagine del mare (che anche nella Dolce Vita si eleverà a simbolo del misterioso scorrere della vita) che tanto amò questo grande regista. La recitazione di Giulietta Masina (Morandini la definì «faccia da clown, miscela di Harpo Marx, Chaplin e una bambola») fece storia, la brutalità di Anthony Quinn fu un degnissimo contraltare di quella grazia fanciullesca. Ancora, c’è il racconto per immagini di un’Italia uscita dalla Guerra con le mura fracassate ma con la volontà di non star ferma a leccarsi le ferite. La rinascita, sembra dirci Fellini, non può che partire dal recupero di quella possibilità di stupore di fronte ad ogni sasso del creato, da quel desiderio di compagnia e di amore gratuito superiore ad ogni odio. Questa coscienza strappa il film dalla contingenza storica del secondo dopoguerra rendendolo universale e attuale a ogni epoca.

Andrea Puglia