Nel 1977 Ben è un dodicenne che vive in Minnesota con la madre ed è perseguitato dall’incubo ricorrente di un branco di lupi. Una notte in un incidente Ben perde la madre e l’udito e decide di scappare dall’ospedale per andare a New York alla ricerca di quello che dovrebbe essere suo padre. Nel 1927 Rose è una bambina sorda dalla nascita che vive con il padre severo nel New Jersey. Rose ha una grande passione per una diva del cinema muto e un giorno decide di scappare dal padre per andare a New York a cercare la diva. Queste due storie poi si andranno ad incontrare e incrociare in maniera affascinante e misteriosa.
Tratto dal romanzo omonimo di Brian Selznick (adattato fedelmente per lo schermo dallo stesso Selznick), il particolarissimo autore e illustratore per bambini divenuto famoso per La straordinaria invenzione di Hugo Cabret da cui Scorsese ha tratto il suo film, La stanza delle meraviglie è stato presentato all’edizione 2017 del festival di Cannes; ora arriva con un anno di ritardo finalmente nelle nostre sale, reduce da un immeritato flop nel resto del mondo. È l’ultima fatica del geniale regista Todd Haynes, uno dei più raffinati linguisti e filologi del cinema contemporaneo americano. Partendo dal cinema acido e sperimentale della cultura underground con Poison e Safe è arrivato a conquistare un più ampio pubblico con curiosi film pseudo-biografici come Velvet Goldmine e Io non sono qui ma soprattutto con i suoi melodrammi Lontano dal Paradiso e Carol.
La stanza delle meraviglie ha una narrazione articolata su due piani temporali, gli anni 70 a colori e con il sonoro, con un’estetica del teleobbiettivo, dei colori slavati, e di una colonna sonora glam, che restituisce con precisione il cinema di quegli anni; mentre negli anni 20 il film è muto e in bianco e nero, con un incessante commento musicale. Un’operazione stilisticamente in linea con la precisione “filologica” dell’autore, ma che diventa in qualche modo più di un esercizio di manierismo di alta classe grazie alla capacità di coinvolgere nella storia (di cui è bene non svelare niente visti i numerosi colpi di scena) e nei personaggi. L’alta ricerca formale all’inizio può lasciare un po’ straniati, ma poi coinvolge e affascina e tutta la storia diventa una sorta di caleidoscopio magico, che regala immagini incredibili (grazie anche alla clamorosa fotografia del veterano Ed Lanchman) e fa emergere nello spettatore il desiderio di tornare a meravigliarsi ancora, come si meravigliano i due piccoli protagonisti. Una menzione speciale va ai due giovani attori, soprattutto a Rose, Millicent Simmonds, bambina realmente sordomuta (vista di recente in A Quiet Place – Un posto tranquillo); a “vegliare” sopra a questi giovani protagonisti c’è il mostro sacro Julianne Moore, sempre brava in un curioso doppio ruolo, e anche Michelle Williams, la cui parte è invece poco più che un cameo.
Un film quindi decisamente affascinante, che abbraccia gli stilemi del melodramma e del cinema sentimentale senza vergogna, che emoziona e stupisce, e che conferma (casomai ce ne fosse ancora bisogno) il talento di Todd Haynes come uno dei più grandi creatori di immagini del cinema contemporaneo.
Riccardo Copreni