In una radiosa mattina del 1939 Antonina Zabinski, la “signora” del titolo del film, attraversa in bicicletta il suo sterminato zoo al centro di Varsavia, città già turbata ma ancora intatta nei suoi rituali sociali e nella sua architettura pacifica e regolare. Ma questa calma idilliaca è solo apparente, e prepara ad una violenta invasione dell’esercito tedesco che sancirà poi l’inizio della seconda guerra mondiale e il processo di trasferimento degli ebrei nel ghetto. Jan Zabinski, proprietario e gestore dello zoo già nel 1929, assiste inerme alla distruzione dell’equilibrio del suo zoo e della sua vita: i due coniugi sono costretti ad accogliere le truppe tedesche e a sottostare alle follie pseudoscientifiche del capo zoologo del regime nazista Lutz Heck, infatuatosi di Antonina e deciso a riportare in vita le antiche specie degli Uri, possenti bisonti appartenuti ad una mitologia tedesca ormai lontana. Toccati molto da vicino dall’eccidio ebraico e coinvolti nella resistenza popolare armata, i due decidono di ospitare un allevamento di maiali per sfamare l’esercito nazista, camuffando così i loro reali intenti: ospitare partigiani e cittadini ebrei fuggiti dal ghetto.
Al livello storico e letterario la vicenda ci è stata raccontata solo nel 2009 da Diane Ackerman nel suo libro Gli ebrei dello zoo di Varsavia, che ha svelato al mondo il coraggio di questa coppia, inserita a ragione nel giardino dei Giusti dello Yad Vashem di Gerusalemme. La trasposizione filmica di Niki Cairo punta molto sullo slittamento del concetto di salvaguardia delle specie nello zoo animale, che diventa salvaguardia della specie nella sua totalità in una sorta di zoo umano creato e organizzato meticolosamente dai due coniugi proprio sotto il naso delle truppe naziste che occupavano i loro spazi; la vicenda è ricreata in maniera rigorosa e pulita nel suo sviluppo, e tuttavia si bea di una forma narrativa che ricalca un canovaccio ormai un po’ usurato nel tempo, tra produzioni americane ed europee che negli anni hanno trattato il tema dell’olocausto. A questa reiterazione canonica sopperisce un piano visivo incredibilmente ben riuscito, che mantiene altissima la tensione e ci parla in modo molto più empatico dei drammi vissuti dai protagonisti, vivificati da sequenze pregne di paura e sofferenza; il ritmo procede nel thrilling creato dalle visite di Jan al ghetto per raccogliere l’immondizia – e non solo – con cui sfamare i suoi maiali, e le visite allo zoo di Lutz Heck, sempre più ambiguo nei suoi intenti e deviato nelle sue ideologie. Nei turbamenti della coscienza si costruisce poi l’Interessante dinamica coniugale dei Zabinski, che procedono nella decisione di ospitare gli ebrei in casa loro in modo lento e ponderato, soppesando i rischi e avanzando con una realistica e molto umana apprensione, che viene però superata proprio da quella compassione che non può essere zittita. Ed ecco spalancarsi le porte della propria casa tanto ai partigiani quanto ai comuni cittadini ebrei, donne, bambini e anziani, tirati fuori dal ghetto grazie a pericolosi ma intelligenti espedienti messi in atto dai due.
Un’ottima Jessica Chastain, sempre più a suo agio nell’incredibile trasformismo a cui ci ha abituati, viene tuttavia un po’ svilita dalla formulazione di alcune battute che danno un senso di deja-vu, anche un po’ retorico e sentimentale, che finiscono per rendere i personaggi – Lutz Heck più di tutti – prevedibili nei comportamenti e quasi bidimensionali nei caratteri.
Al di là di alcuni pur significativi difetti, l’adattamento della Caro resta ben riuscito soprattutto nella volontà di comunicare il valore di un messaggio di speranza, umanità e condivisione che coraggiosamente non scende a patti con la mostruosità dei regimi politici, ma che obbedisce solo alle dinamiche del proprio cuore.

Letizia Cilea