Bologna, anni 70. Marzio e Samuele sono giovanissimi e sognano di sfondare con la musica: amici per la pelle, fondano il duo musicale I Leggenda e si propongono per locali e serate. Intanto conoscono Sandra, bellissima ragazza che aspira a diventare indossatrice. Qualche anno dopo, nella quattordicesima domenica del tempo ordinario, Marzio sposa Sandra mentre Samuele suona l’organo. Quella “quattordicesima domenica” diventa il titolo di una loro canzone, con cui si candidano al Festival di Sanremo e che rimarrà l’unica da loro incisa. Molti anni dopo, tutto sembra essere stato spazzato via dalla vita: l’amore, l’amicizia, i loro sogni…
Il nuovo film di Pupi Avati (il 43° solo per il cinema, cui sono da aggiungere le numerose regie per film tv e sceneggiati), a pochissima distanza dal notevole film su Dante, è un ritorno al fecondo filone delle memorie personali del regista: un filone che ha dato in passato opere molto belle come Una gita scolastica, Festa di laurea, Storia di ragazzi e di ragazze, più di recente opere diseguali come Ma quando arrivano le ragazze?, Il cuore grande delle ragazze o il minore ma divertente Gli amici del bar Margherita, l’unico a trattare il passato con sguardo allegro e non malinconico o triste. A detta del regista, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è uno dei suoi film più personali; in effetti il titolo fa riferimento al calendario liturgico della Chiesa cattolica e alla data del vero matrimonio (felice e lunghissimo) di Pupi Avati con sua moglie. Ma si sa anche come, prima ancora che di sfondare nel cinema, il giovanissimo Pupi sognasse di avere un futuro come musicista (e la musica aveva un grande ruolo nelle sue prime regie, come lo sceneggiato tv Jazz band. C’è insomma molto di biografico, ma anche di romanzesco come sempre nei racconti degli autori (e in particolare di Avati, che ama romanzare anche quando racconta al pubblico le storie della sua vita).
Purtroppo stavolta, come accade ormai da diversi anni (con appunto la felice eccezione di Dante: sulla carta la sua impresa più difficile, e invece…), La quattordicesima domenica del tempo ordinario risulta un’operina confusa e davvero modesta, che alterna scene sopra le righe. Come il primo incontro tra i due vecchi amici, interpretati da vecchi da uno sprecatissimo Gabriele Lavia il (grande attore teatrale ha sempre avuto poca fortuna con il cinema, o ha scelto sempre molto male) e da un Massimo Lopez che si fatica a guardare senza sorridere pensando al suo background comico (scelta pessima di casting), che non riesce a far dimenticare pur in un incipit molto drammatico. Certo il suo personaggio non fa pensare nemmeno per un secondo di essere credibilmente quello che deve essere in sceneggiatura: ovvero l’amico scaltro che ha lasciato la musica per fare il banchiere e diventare un uomo potente, avendo ragione sui sogni dell’amico fallito. Meglio dei due se la cava Edwige Fenech, così diversa dai ruoli che la resero celebre al cinema ma ancora molto bella, e tutto sommato misurata nell’interpretare Sandra da adulta in là negli anni, pur a dispetto di dialoghi atroci e di una scansione drammaturgica ridicola. Per fare un esempio, la scena in cui lei prima finge di avere una casa in centro, poi ammette di essere povera e di vivere ospite di amici e quindi si fa ospitare dall’ex marito, poi quando lui gli dice di aver sognato il padre (fra le poche scene decenti) lo apostrofa come pazzo e se ne vuole andare preferendo stare per strada senza un posto dove dormire… il tutto in pochi minuti di continui cambiamenti d’umore. Ma di scene tirate via ce ne sono tante, colpa anche di alcuni attori non all’altezza: su tutti Lodo Guenzi, nei panni del protagonista da giovane (ci prova molto con il cinema: ma non sarebbe meglio fare solo il cantante?), mentre se la cavano meglio gli altri due lati giovani del “triangolo”, ovvero Camilla Ciraolo e Nick Russo. Ma il problema vero sono dialoghi e sceneggiatura (come sempre scritta da solo), che non risulta credibile né quando mette in scena gli anni 70 – in cui Avati era troppo vecchio per vivere da protagonista feste danzanti e “fumate” – né quando racconta gli eccessi del protagonista, con scenate di gelosia anche in tarda età e al tramonto della sua vita. Stendiamo un velo pietoso anche sulla ripetuta esibizione canora della canzone del titolo, davvero brutta: a Sanremo erano forse messi male negli anni 70, ma mai così tanto da poter accettare una canzone simile, che sembra la parodia del sentimentalismo triste in voga nel famoso festival canoro. Non sorprende che, nella finzione, fosse bocciata…
Peccato: con il film dedicato al grande Alighieri Pupi Avati aveva fatto ricredere sul suo, di tramonto; dopo questo film ci si chiede cosa aggiungano a una gloriosa carriera opere tanto irrilevanti e mediocri.
Antonio Autieri
Clicca qui per rimanere aggiornato sulle nuove uscite al cinema
Clicca qui per iscriverti alla newsletter di Sentieri del cinema