Siamo nel 1957 a Monterrey, in Messico. Un gruppo di ragazzini sostenuti da Padre Esteban, un prete cattolico, e allenati da César Faz, un tempo aspirante giocatore della Major League americana, si appassionarono al gioco più popolare degli Stati Uniti al punto da iscriversi per partecipare alle World Series della Little League, un torneo americano aperto a tutti e riservato ai giovani.

I Monterrey Industrials, questo il nome che si erano dati, arrivarono nel Texas per partecipare alla prima fase con un visto valido per soli tre giorni, attraversando il confine a piedi, aspettandosi di giocare una partita, perderla e tornare a casa. Erano più magri e più bassi dei loro antagonisti, giocavano con materiale scarso, ma vinsero. Poi vinsero la partita successiva, e quella successiva, e così via, passando per i tornei regionali e statali.

I loro visti scadevano e sarebbero stati espulsi se non per l’intervento dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, non avevano i soldi per comprarsi da mangiare; i loro orari erano stancanti, diversi da quelli cui erano abituati. Ma continuarono a giocare arrivando alla finale e vincendo, diventando così la prima squadra non americana a conquistare il titolo Little League delle World Series.

La stampa li battezzò subito“Los Pequeños Gigantes”, i piccoli giganti, e passarono alla storia.

La partita perfetta, pur raccontando una vicenda realmente accaduta, è un film che si prende alcune libertà rispetto alla vera storia: la squadra si chiamava “Monterrey Industrials” perché al tempo la città era ricca di industrie siderurgiche, di certo non una baraccopoli come viene dipinta nel film; alcuni personaggi chiave che vengono descritti come dei dropouts erano ancora inseriti nel giro del baseball, e così via. Il film è evidentemente più interessato a proporre una solida storia di riscatto morale che ad essere realistico a tutti i costi (viene in mente la famosa battuta di L’uomo che uccise Liberty Valance: «Quando la leggenda diventa realtà, si stampa la leggenda»), ma comunque il suo nucleo rimane, forte e intatto, anche a dispetto dei clichés e dei numerosi inserti para religiosi su Dio, fede e miracoli (alcuni di questi anche abbastanza “pesanti”).

Cheech Marin è un prete affabile, più credibile nel pronunciare battute come «Se Dio non volesse che giocassimo a baseball, non lo renderebbe così divertente» che quando celebra coi paramenti. Simpatica anche una scena nella quale i ragazzi, abituati alla benedizione del prete prima della partita, in sua assenza accettano quella di un pastore nero protestante che cita un passo della Bibbia in cui annuncia la vittoria di Israele contro i suoi nemici.

Non mancano nemmeno i vari esempi di razzismo, sciovinismo e bullismi vari, ma nel complesso La partita perfetta rimane un buon film di ambito sportivo e, nonostante il baseball da noi sia uno sport tutt’altro che popolare, il film è un bell’esempio di quella tenacia, determinazione e spirito di collaborazione, che solo gli sport di squadra riescono a offrire.

Beppe Musicco