Correva l’anno 1924: il film più visto negli USA era The Sea Hawk di Frank Lloyd, di ambientazione piratesca; l’imprenditore Marcus Loew fondava la Metro-Goldwyn-Mayer (MGM); a Pittsburgh moriva Eleonora Duse; a Omaha nasceva Marlon Brando. Nel quadro di un’economia in forte espansione, a Hollywood si respirava aria di cambiamento, con la realizzazione dei primi film ad alto budget e nomi europei (Lubitsch, Veidt, Murnau) che iniziavano a trasferirsi presso i nuovi studios. Era l’ultima stagione del cinema muto.
Quello stesso anno, il comico Buster Keaton girava il suo terzo lungometraggio, Sherlock Jr., da noi tradotto La palla n° 13 per via di una sequenza incentrata su una pallina da biliardo. La pellicola è ricordata oggi come una delle prime sperimentazioni (se non la prima in assoluto) di metacinema: in una scena molto famosa infatti, il protagonista si addormenta nella cabina di proiezione del cinema in cui lavora, e la sua immagine in sovraimpressione abbandona il suo corpo per vivere un’avventura onirica. Il Buster Keaton del sogno si avvicina allo schermo cinematografico ed entra nel film che sta venendo proiettato. È allora che la storia mostrata nel prologo (il furto di un orologio di cui Buster era accusato ingiustamente) si ripete, con le dovute differenze, su quello schermo, generando un “film nel film”.
La scena dell’entrata dentro lo schermo è rappresentativa dello stile innovativo del comico/regista. Qui lo sfondo in cui si trova Buster muta ripetutamente (come se qualcuno cambiasse canale… e non esisteva ancora la televisione!), scaraventando il poveretto da una situazione all’altra: una villa, una strada, una giungla, dei binari, una scogliera…questa sequenza, straordinaria per la tecnologia dell’epoca, fu resa possibile grazie a un effetto speciale “casereccio” ideato dal direttore della fotografia Elgin Lessley. Oltre all’innovazione tecnica, questa e molte altre sequenze testimoniano l’abilità di Keaton nell’usare la comicità per riflettere sulla magia del cinema: un luogo imprevedibile dove, proprio come in un sogno, si può viaggiare nel tempo e nello spazio e tutto sembra possibile. Con coreografie studiate e inquadrature dalla perfezione geometrica in cui nulla è lasciato al caso, Keaton esplora le infinite potenzialità del cinema e crea situazioni surreali, rese ancora più esilaranti dal suo volto imperturbabile (lo chiamavano “Faccia di pietra”).
Memorabile è anche la sequenza finale: il protagonista, ormai risvegliatosi dal sonno, si ricongiunge con la sua fidanzata. Non sapendo come approcciarsi, osserva due amanti sullo schermo del cinema per trovare ispirazione da loro. L’uomo del film prende le mani della donna, e così fa Buster. Lui la bacia, e Buster lo imita. La scena reale e quella del film si alternano, così che Buster guarda lo schermo ma allo stesso tempo guarda in camera, cioè verso noi spettatori che a nostra volta guardiamo lui. Si crea in questo modo un gioco di sguardi “a tre” che in pochi secondi e nella sua apparente semplicità ci racconta la misteriosa, magica storia d’amore tra spettatore e film. Una storia che va avanti da più di 120 anni.
Maria Triberti