Siamo nel 1983. Héctor Abad Jr. torna dall’Italia a Medellín per celebrare il padre, Héctor Abad, illustre medico e professore universitario costretto dalle autorità al pensionamento. La sua è stata una vita dedicata agli altri, al miglioramento delle pessime condizioni di vita di molti colombiani. Un uomo libero ma pericoloso nella Colombia violenta di quegli anni, tanto da venire assassinato dai paramilitari nel 1987.
Tratto dal libro autobiografico di Héctor Abad Jr, La nostra storia di Fernando Trueba racconta la vita di uno dei tanti eroi civili uccisi in Colombia negli anni 80: il medico Héctor Abad Gòmez (Javier Cámara). Il film è diviso esattamente in due parti. La prima, ambientata a inizio anni 70, è caratterizzata da intense immagini a colori. Una scelta simbolica per descrivere la vita piena di calore in famiglia di questo uomo molto dedito alla sua professione e all’impegno civile tanto da sostenere l’importanza di un sistema sanitario pubblico per tutti. Il film vive molto del rapporto tra genitore e figlio; Héctor Jr. (Juan Pablo Urrego da grande, Nicolás Reyes Cano da bambino) ha una vera venerazione per il padre, altrettanto amato dalla moglie e dalle altre cinque figlie. Anche se sembra che non succeda niente in questa prima ora abbondante di film, in realtà si delineano bene i caratteri di tutti i protagonisti e si descrive bene la vita quotidiana di questa famiglia allegra, benestante ma non egoista. L’evento traumatico della morte per tumore di Marta, una delle figlie, ci porta direttamente agli anni 80.
Qui La nostra storia diventa in bianco e nero a sottolineare che ci si avvicina ai periodi più difficili e cupi per Héctor Gòmez, per la sua famiglia e per la Colombia. C’è tensione e non si respira più quell’aria spensierata della prima parte del film. Anche i rapporti tra padre e figlio sono un po’ cambiati e si sono fatti più tesi, tanto da spingere Héctor Jr ad andare in Italia a studiare letteratura. In uno dei dialoghi più intensi del film, il ragazzo accusa il padre di dedicarsi sempre più agli altri trascurando la famiglia, per colmare il vuoto lasciato dalla morte di Marta. Anche la moglie Cecilia (Patricia Tamayo) confiderà al figlio, poco prima della morte del marito, di non aver fatto quasi più niente insieme a lui dopo quel tragico lutto. In modo molto lineare vediamo il medico che, una volta in pensione, si dedica sempre più alla politica, fino a candidarsi da liberale a sindaco di Medellín. L’esito di questa vicenda la conosciamo ma merito del film di Trueba – probabilmente un po’ troppo lungo soprattutto nella prima parte e con il pathos maggiore concentrato negli ultimi minuti – è proprio quello di aver restituito alla memoria, non solo dei colombiani democratici, una delle tante figure che nel continente sudamericano ha sacrificato la sua vita per difendere le proprie idee. Convincenti la prove di Javier Cámara e del piccolo Nicolás Reyes Cano. La nostra storia è stato selezionato per il Festival di Cannes 2020, poi annullato per la pandemia, e presentato poi alla Festa del Cinema di Roma.
Aldo Artosin
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