1938. Edith Pretty (Carey Mulligan) è una giovane vedova che dopo la morte del marito colonnello vive con il figlio Robert in una vasta tenuta nel Suffolk, comprendente un campo pieno di tumuli che potrebbero nascondere tombe di epoca vichinga. I due coniugi, appassionati di archeologia, avevano comprato quel terreno per scoprire quali tesori vi si nascondessero, ma la tragica scomparsa del marito ha lasciato quel sogno incompiuto; ora Edith vuole portarlo a termine. Il museo più vicino, quello della cittadina di Ipswich, è scettico sull’impresa, e invia il suo specialista in scavi, Basil Brown (Ralph Fiennes – che, piccola chicca, è originario proprio di Ipswich). Basil è un uomo di poche parole, che non teme di sporcarsi le mani, colto ma autodidatta. Ha imparato a scavare alla ricerca di reperti da suo padre e suo nonno e ha studiato per conto proprio, al punto di aver scritto anche un trattato di astronomia, ma gli scavi archeologici sono la cosa che ama maggiormente e che sa fare meglio. È questo amore a fargli sopportare pure il fatto di essere misconosciuto e sottopagato per via della sua formazione non accademica.
E come sempre capita nei film – e qualche volta nella vita reale, perché questa è una storia vera – sono gli ultimi a scoprire il più grande dei tesori. Sotto uno dei tumuli Basil scopre un’intera nave del VII secolo, seppellita come monumento funebre e corredata di reperti archeologici di valore inestimabile.
Il film del giovane regista australiano Simon Stone, alla sua seconda fatica cinematografica, è l’adattamento dell’omonimo libro (in inglese The Dig, lo scavo) di John Preston, che racconta l’incredibile storia degli scavi di Sutton Hoo, tutt’oggi ritenuti una delle più grandi scoperte della storia britannica. I reperti di grande pregio artistico, infatti, hanno reso possibile una totale riscoperta della cultura anglosassone, fino ad allora ritenuta barbara e priva di finezza. Artefice di questa scoperta fu proprio lo sconosciuto archeologo autodidatta Basil Brown, su mandato dell’aristocratica Edith Pretty, che decise di donare l’intero tesoro ritrovato nella sua terra alla nazione britannica.
Il film, in streaming su Netflix, segue le vicende senza cliché narrativi, ed è spontaneo e lineare nel raccontare il procedere della scoperta e l’aumentare dei personaggi. All’inizio sono Edith e Basil al centro della scena, ma quando la nave si rivela nella sua magnificenza, la comunità accademica del British Museum interviene per mettere le mani sul tesoro. Tra di essi anche una giovane archeologa (Lily James) che lentamente s’innamora del cugino di Edith, Rory (un non troppo convincente Johnny Flynn), giovane fotografo dal grande cuore. L’ingresso di entrambi i personaggi avviene circa a metà del film, una scelta molto rara in sceneggiatura, ma che non stona perché gestita con la naturalezza e la verità che caratterizza tutto il film.
L’opera coniuga lo slancio epico dell’impresa con toni profondi e lirici, sostenuti ulteriormente da una fotografia dove si impongono la bellezza della campagna inglese e l’ampiezza di cieli ora opachi ora chiaroscurali – sulla scia del nostro amato Terrence Malick – che come nei quadri di Millet conferiscono un tono sacrale e universale ad ogni azione dei personaggi. Così come universale è la metafora del viaggio che permea tutto il film: Robert, il figlio di Edith, è un ragazzino appassionato di fantascienza e navi spaziali, e intuisce subito che la ricerca archeologica di Basil, con cui stringe un forte legame, è anch’essa un viaggio di esplorazione, ma nel passato. Un viaggio nel tempo per ridare vita a ciò che il tempo ha trasformato in polvere; una ricerca intrigante, ma che allo stesso tempo costringe i protagonisti a chiedersi cosa resterà in un centinaio di anni, quando anche di loro – e gli archeologi lo sanno bene – non rimarrà che un po’ di carbonio e acciaio. Questa coscienza della morte, oltre ad essere percepita per via dello scoppio imminente della Seconda guerra mondiale, è scritta a chiare lettere sul volto di Edith, provata dalla morte del marito e da una malattia terminale che l’affligge. E allora, si chiede con coraggio – così come lo urla tutto il film – che senso ha tutto? Una risposta verrà tentata nel dialogo tenero e non banale con Ralph Fiennes, ma tutti i protagonisti dovranno abbozzarne una.
La nave sepolta è un film di ampio respiro – quanto mai necessario in questi tempi chiusi, che non solo incanta visivamente ma che ha anche il coraggio di fare una domanda scomoda e soprattutto di non farla cadere nel vuoto. Forse, unico sgarro, è una regia che sa un po’ di già visto, e una colonna sonora spesso banale e mal calibrata. Difetti passabili per un giovane regista al secondo film e per un’opera che non delude.
Cecilia Leardini