1966: la meglio gioventù del titolo – citazione pasoliniana, a sua volte debitrice di un famoso canto alpino – è quella che vuole cambiare il mondo, che ha ideali giusti e spirito di libertà a volte un po’ confuso. In quell’estate, con i primi esami all’università, i primi amori, le prime delusioni, i due fratelli Nicola e Matteo (che bello il loro rapporto affettuoso) “bucano” una programmata vacanza in giro per l’Europa a causa di Giorgia, una ragazzina disturbata che si sono presi a cuore. La fanno scappare dalla clinica psichiatrica dove è rinchiusa e maltrattata, e vogliono riportarla dal padre (che di lei non si cura). Finirà male il loro impeto buono ma pasticcione, ma servirà a Nicola a scoprire la sua vocazione: diventare “medico dei pazzi”, psichiatra modernista che si batte contro i manicomi e scoprirà il suo maestro in Basaglia. Matteo invece, divorato da demoni di inquietudine che lo fanno soffrire in famiglia come con i (pochi) affetti, vivrà questa storia come la sua prima cocente sconfitta. I due si ritroveranno poco dopo a Firenze: Nicola volontario insieme a tanti giovani che cercano di salvare i tesori artistici dalla tragica inondazione dell’Arno, Matteo che ha indossato la divisa da militare, e poi finirà in polizia alla ricerca di “regole da applicare”.
Il film si dipana attraverso una serie di snodi privati e storici, o meglio i primi intrecciati ai secondi: il Sessantotto ma più ancora gli anni Settanta con le contestazioni o il terrorismo (la donna di Nicola diventerà brigatista, abbandonando lui e la figlia di 4 anni), i licenziamenti a Torino nell’80 e la vittoria dell’Italia ai mondiali ’82, le stragi mafiose, i primi scandali e poi Tangentopoli. Ma rimangono soprattutto i Carati (madre e padre generosamente all’antica, due sorelle molto diverse: una giovanissima motore positivo della famiglia e una grande che si getta in magistratura) e i pochi amici fedeli di Nicola (tra cui Carlo, che sposerà la piccola di famiglia, Francesca). Tutti i giovani sono pervasi da ideali “progressisti” con cui prima o poi fare i conti… E soprattutto, con gioie (non molte, a dir la verità) e dolori. Su tutte, una tragedia che segnerà l’intera famiglia… Ma che non impedirà, misteriosamente, che molto tempo dopo ne nasca del bene…
Meglio non svelare alcuni punti salienti della trama, nelle sei ore abbondanti di film, diviso al cinema in due atti e presto in Tv (è noto che La meglio gioventù è nato come sceneggiato, poi finito al cinema sull’onda del successo di Cannes). L’opera di Marco Tullio Giordana (già distintosi con I cento passi, sempre con il bravo lLuigi Lo Cascio che qui fa Nicola) è un’opera di grande respiro, più sul piano della “famiglia” (inevitabile il confronto con il film di Scola) che su quello storico, dove imprecisioni e pressapochismi risultano un po’ irritanti (e soprattutto la lente deformante della lettura politica: la storia d’Italia come un tradimento di ideali, anche se si citano pochi nomi di politici o di partiti); sebbene sia coraggiosa la condanna senza mezzi termini del terrorismo, senza facili escamotage di “ideali sbagliati”. Piuttosto, infastidisce un po’ la retorica della psichiatria progressista: e qui gli sceneggiatori Rulli e Petraglia, già autori negli anni ’70 di uno storico pamphlet pro Basaglia insieme ad Agosti e Bellocchio, tornano all’infausto ideologismo che poi ha provocato tanti danni in materia, contrapponendo all’estremo delle violenze ai malati l’opposto estremismo del forzato reinserimento in famiglia (come confermano le tante tragedie familiari raccontate dalle cronache negli ultimi vent’anni).
I personaggi sono tratteggiati con notevole sensibilità (soprattutto Matteo, il fratello introverso e disperato, il personaggio più umano), e tutti resi al meglio da attori molto bravi (come la rivelazione Alessio Boni, l’intensa Jasmine Trinca, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, il già citato Luigi Lo Cascio). Ma la lacuna maggiore del film è un didascalismo colmo di buone intenzioni progressiste (fino alla genericità) e soprattutto il fatto che Giordana racconta solo “una parte” di quella gioventù (legittimo, per carità: quella che lui conosce meglio), ma definendola in maniera irritante “migliore”, come se altre scelte non fossero possibili. Esempio: non solo la Chiesa non esiste in quarant’anni di storia (l’unica coppia che si sposa lo fa in Comune), se si eccettua un “prete anti-mafia”, no global ante litteram, che sembra una macchietta e parla di diritti civili e non si sogna di nominare Cristo, ma soprattutto è evidente che l’unica scelta lecita in quell’universo è la sfida civile ed “etica” di persone oneste in lotta contro un mondo che onesto non è; persone che, pure, non sanno difendere se stessi e le persone che amano dal disgregarsi dei rapporti, dalla cattiveria insita nell’animo umano. L’unica persona inquieta esistenzialmente è Matteo, personaggio di una fragilità commovente che però si traduce in stranezza caratteriale, non sviluppata come meritava: lui è il più fragile perché non si accontenta delle facili certezze ideologiche di fratelli e amici. Non di meno, la bellezza del film sta nel rappresentare i loro affetti purissimi: amici e fratelli che si vogliono bene, anche se incapaci al dunque di aiutarsi. E quindi ne derivano tragedie, famiglie spezzate, errori, sensi di colpa, insicurezze, incertezze (come Nicola e Mirella, che si confidano il loro amore in extremis, dopo tanti anni). Persone convinte di “decidere tutto io della mia vita”, come dice Matteo, ma come in fondo è anche il fratello Nicola, e incapaci invece di bloccare sulla soglia di una porta una persona amata che sta andando verso la distruzione (Giulia, lo stesso Matteo). E se pure il finale è bello e aperto alla speranza (la toccante apparizione di Matteo che “benedice” la nuova coppia Nicola-Mirella, il nipote Andrea che scrive a Nicola “avevi ragione: tutto è veramente bello”), con la vita che, nonostante tutto, va avanti, rimane uno straziante senso di tristezza e di promesse non mantenute da un ingiusto destino a persone “migliori” degli altri.
Antonio Autieri