Sono giovani e sorridenti, Juan, Samuel e Sara. Dal loro Guatemala, puntano ad arrivare negli Stati Uniti per raggiungere una terra promessa di opportunità. Gli ostacoli sono infiniti, e alle prime avvisaglie – ovvero la frontiera con il Messico – Samuel se ne va; mentre a Juan e Sara, che sono legati da affettuosa complicità, si aggiunge l’indio Chauk (di cui Juan diventa presto geloso) che non sa comunicare con loro: parla nella sua lingua incomprensibile e non conosce lo spagnolo. Il viaggio presenta pochi momenti lieti (in cui viene fuori la loro natura di ragazzi), e moltissime brutture. Soprattutto per Sara, che si camuffa da maschio per non incorrere in pericoli ancora maggiori. Ma a ogni angolo, questi pericoli si ripresentano. L’esordiente Diego Quemada-Diez (già operatore di riprese per Ken Loach, Alejandro Inarritu, Spike Lee, Oliver Stone, Fernando Meirelles) racconta un’odissea di speranze e disillusioni con tono semidocumentario, che inizialmente stenta ad appassionare: ed è il difetto maggiore di un film che ci mette quasi metà della sua durata a farci entrare nei cuori dei suoi giovani protagonisti, tra schermaglie tra loro, fatiche per sopravvivere, fughe e noiosi trasferimenti; ma quando siamo entrati, finalmente, in empatia con loro, a quel punto La gabbia dorata è una prigione anche per noi, da cui sentiamo di non poter scappare. Siamo prigionieri di una storia quasi di orrore, in cui una ragazza non può mostrarsi come tale, in cui un gruppo di banditi chiede a un ragazzino di scegliere tra sé e un suo compagno di sventura, in cui parole come dignità e pietà sembrano non aver alcun significato. Eppure, nonostante tutto, nell’evoluzione dei sentimenti – prima ostili, poi solidali di Juan per l’indio Chauk – c’è una nota di flebile speranza. Rimane però la perplessità per il tono abbastanza punitivo per uno spettatore non più che motivato; e se è comprensibile ritenere che qualsiasi abbellimento di una realtà tanto dura può essere sembrato al narratore un tradimento della verità dei fatti, si può rimpiangere un altro cinema d’autore (come quello di Loach, con cui il regista ha collaborato varie volte) che sa raccontare le storie più dolorose senza dimenticarsi di essere cinema. Non nel senso di intrattenimento e spettacolo, parole non consone a un film simile; ma di una drammaturgia che sappia tenere avvinto per tutta la durata lo spettatore. Ne gioverebbe – noi pensiamo – la stessa commozione per il dramma raccontato che il regista giustamente vorrebbe provocare in noi. Riuscendoci, però, solo a tratti.,Antonio Autieri