Dopo l’ottimo “Casomai”, Alessandro D’Alatri ripropone Fabio Volo – meglio noto come volto tv, ma ancora una volta credibile al cinema – in un’altra vicenda che ha il sspaore della contemporaneità. Il paese di provincia, esplicitamente Cremona, dove ambienta le vicende di Mario Bettini, giovane geometra entusiasta e desideroso di “fare”, potrebbe essere qualsiasi paese italiano (e non necessariamente di provincia). Perché Mario, che sogna di aprire un locale con degli amici e intanto si impiega in Comune, ha i sogni di tanti trentenni come lui. E lo stesso entusiasmo. E vive una storia d’amore con la bella Linda come ce ne sono tante tra i suoi coetanei. ,Ma Mario incontra anche le difficoltà e gli ostacoli che tanti suoi concittadini trovano in un paese, l’Italia, che è quello dei mille talenti ma anche della burocrazia soffocante, dell’invidia gretta e ottusa, dei “capataz” che si divertono a rovinare sogni e ambizioni, legittime, di chi vuol volare alto. Tanto da essere tentato di mollare tutto – e almeno con gli amici del locale rompe bruscamente – e, in sogno, di restituire la carta d’identità al Presidente della Repubblica (un cameo di Arnoldo Foà, evidentemente modellato su Ciampi).,“La febbre” è uno strano film, non del tutto riuscito e diseguale. Eppure attraversato da un sentimento di profonda partecipazione per ragazzi ricchi di idee e di ideali. Come già nel precedente “Casomai”, dove D’Alatri parteggiava spudoratamante per una giovane coppia contro i mille ostacoli che amici, parenti e società paravano loro dinnanzi, qui il regista di “Americano rosso” e “Senza pelle” esalta il talento, la voglia di costruire qualcosa di bello e di “proprio”. E mette in guardia contro mediocrità e pavidità, di gente meschina che preferisce distruggere i progetti e i desideri degli altri piuttosto che cercare di assecondare i propri.,Se le intenzioni e gli spunti sono tanti, interessanti e numerosi, non altrimenti lo è la resa cinematografica, soprattutto la congruenza narrativa del film. Alcuni personaggi sono solo accennati (gli amici con cui realizzare il locale, tra cui il figlio di Enzo Jannacci, Paolo), altri compaiono e scompaiono in un lampo (il fratello del protagonista, il Chiodaroli di Zelig, una ex fidanzata), certe soluzioni stilistiche non convincono (alcuni effetti speciali troppo virtuosistici, e un po’ bruttini…), il capo odioso un po’ macchiettistico – tanto da sviare dal tema dell’invidia per il talento e ridurre la contesa a una stramba e misteriosa ossessione personale – e il collega che sogna di andare in pensione che “ovviamente” ci andrà per pochissimo… Senza contare invece, dal punto di vista dei contenuti, l’antipatico rapporto con una madre ansiogena ma in buona fede (perché tanta cattiveria? durante alcune scenate isteriche di Volo alla mamma, verrebbe voglia di schiaffeggiarlo, il giovane geometra viziato, cui la madre porta ancora il caffè a letto…). E l’elogio del velleitarismo artistico, con tanto di fuga finale nel casale isolato dal paese, può anche essere pericoloso per spettatori che rifiutano una “squallida” realtà impiegatizia o comunque banalmente frustrante.,Ma c’è, nonostante i tanti difetti, molto dal salvare in “La febbre”. Non solo perché tecnicamente questo regista è sempre superiore alla media, e perché sa scegliere bene i suoi attori (oltre a Volo, c’è una brava e intensa Valeria Solarino che promette bene, e l’ottimo Vittorio Franceschi ben noto a chi frequenta i teatri). Ma perché in un cinema (italiano, soprattutto) che sempre più spesso punta al ribasso, al minimalismo, al negativo, D’Alatri – pur in modo amaro, e quasi contemplando una sconfitta – parteggia come dicevamo per chi comunque cerca una soluzione di lavoro (affrontato da una prospettiva di qualità e di “bellezza”, non in modo sindacale), affettiva, di costruzione insomma, con un approccio e uno sguardo sui personaggi che è sincero e appassionato. Tanto che il finale con la doppia coppia, formata dal geometra e dall’amico su “posizioni sterili” con le rispettive donne rappresenta comunque un cambiamento avvenuto (nell’amico), un ritrovato entusiasmo (in Mario, per la donna che torna), una gioia. E l’ultima immagine che “svela” che quel pezzettino di provincia fa parte di un grande paese chiamato Italia – con tanto di voce fuori campo del “Presidente” che ne sottolinea la bellezza – è, forse retorico dirlo, davvero emozionante.,Antonio Autieri,

La febbre
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