Storia dura di famiglia, terra, sangue e odio che si tramanda di padre in figlio. L'incipit non fa ben sperare: in un piccolo bar di paese, da tavoli vicini, si beccano per questioni di terra due uomini, spalleggiati a loro volta dai propri clan, il tutto sotto lo sguardo perplesso di due ragazzi (i bravissimi Tristan Halilaj e Sindi Lacej), figli di uno dei litiganti, che cercano, inutilmente, di chiamarsi fuori. Quando si passa dalle parole ai fatti e il sangue comincia a scorrere, la famiglia dell'assassino è costretta a chiudersi in casa, con ogni probabilità per sempre: il Kanun, l'antichissimo codice consuetudinario albanese, prevede infatti la vendetta fino al discendente di terzo grado dell'assassino. ,Film molto tosto e ruvido in cui è difficile ritrovare una parola o un segno di speranza. Diretto e sceneggiato dal californiano Joshua Marston, autore già di un film scomodo su ragazzi vittime di soprusi come Maria Full of Grace, La faida (ma il titolo originale, Forgiveness of Blood è molto più evocativo) ha tanti meriti: il primo è quello di restituire con grande realismo una realtà rurale tanto vicina all'Europa (il villaggio in cui è ambientata la vicenda dista pochi chilometri dalla città di Scutari), quanto lontanissima per cultura e tradizione. Una realtà contadina e poverissima, in cui lo Stato è assente e invece a dominare sono i clan e loro leggi tramandate di generazione in generazione. L'intransigenza del Kanun, ma anche l'arbitrarietà della Bosa, cioè la concessione del perdono a cui il giovane protagonista Nik ambisce per sé e per la propria famiglia; la sottomissione delle donne, davvero cittadine di serie B in questa landa dimenticata dal mondo, a cui non è concesso esprimere opinioni di sorta per quanto riguarda la gestione della famiglia e costrette a lavorare; tanti elementi, probabilmente nuovi per un profano della materia che spaventano e mettono a disagio. Marston infatti, per raccontare questa vicenda dai toni scespiriani lascia sullo sfondo delitto, sangue e possibili spiegazioni sociologiche per concentrarsi solo sui fatti. Un omicidio, l'assassino, braccato dalla polizia e dal clan, che scappa e lascia la famiglia chiusa in casa. Se uscissero infatti, i figli maschi sarebbero uccisi dalla famiglia della vittima che attende in un modo o nell'altro un risarcimento di sangue. Storia terribile, dove parole come perdono e ragionevolezza sono sostituite dall'odio puro, dal rancore e dall'isolamento: gli assediati infatti sono tagliati fuori anche dal resto della comunità. E mentre la madre accetta, rassegnata, un lungo periodo, che probabilmente durerà anni, fatto di stenti e privazioni continue e il clan si impegna a trovare un compromesso politico, colpisce la reazione dei due figli maggiori, Nik e Rudina. Il primo, anche grazie all'incoscienza della propria giovane età, dopo le prime settimane di ritiro forzato comincia a mettere in discussione quello che una tradizione secoli prima ha fissato per lui. Perché il padre non può pagare con il carcere? Perché costringere la famiglia a pagare per dei peccati non commessi? Un bel personaggio, dai tratti umanissimi, diviso tra le preoccupazioni per il destino della famiglia, le ovvie paure per il contesto durissimo e il desiderio di uscire di casa, vedere la propria ragazza e i propri amici. Accanto a Vik l'altro personaggio meglio connotato psicologicamente, la giovanissima sorella, Rudina. Meno istintiva del fratello, osserva spesso in silenzio l'evolversi della situazione e risponde con i fatti: si carica il peso economico della famiglia perché in quanto femmina non potrà essere toccata dal clan rivale. Rinuncia a malincuore a frequentare la scuola e inizia a svolgere i lavori più umili in attesa di una svolta che probabilmente non arriverà mai. Meno potente di un capolavoro come Una separazione, il film di Marston condivide le stesse ambizioni di raccontare, partendo da un episodio ben radicato nel tessuto sociale ed economico di una Nazione, una vicenda universale in cui risuonano temi forti come la colpa, la giustizia e il perdono e in cui l'ultima parola, proprio come nel grande film iraniano, sembrano averla dei ragazzini che tutto giudicano e osservano.,Simone Fortunato