La grande notizia è che non sembra neanche un film italiano. Perché funziona tutto o quasi e nulla sembra lasciato al caso. Bella sceneggiatura, colpi di scena non banali, non manca persino una certa suspense. Gli attori girano bene: la Rappoport, premiata con la Coppa Volpi all’ultima Mostra del cinema di Venezia, si conferma come una buona attrice; Filippo Timi, il Mussolini di Bellocchio, la mette come sempre sul piano fisico ma non sfigura né gigioneggia a sproposito. Dirige un esordiente che ha il merito di non prendersi troppo sul serio ma di rimanere al servizio di una vicenda intrigante. Pochi colpi registici ad effetto, mentre si nota una certa cura nel ricreare un’atmosfera inquietante tipica di certi film di Polanski e Lynch, ma anche qui senza strafare e senza narcisismi inutili. E così, in un film tutto dominato dalla parola sottrazione, una certa invisibilità registica, attori volutamente sotto tono, l’adozione di un registro malinconico, a vincere e colpire è la dimensione dell’intreccio, un elemento molto spesso e non solo nel cinema italiano sacrificato di fronte a effetti più rumorosi, ma che qui conquista e cattura l’attenzione dello spettatore a cui non racconteremo nemmeno una parola della vicenda per non tradirci clamorosamente. Basti sapere che il film parte come una storia come tante, dove l’amore e la morte danzano un tango della disperazione, vira a un certo punto nel thriller psicologico e termina come il meno prevedibile dei melodrammi. Non sarà un capolavoro ma è un solido prodotto di intrattenimento, ben confezionato e che tiene sulla corda fino alla fine. Avercene.

La doppia ora
Una cameriera slovena e un ex poliziotto al centro di un intrigo di non facile risoluzione.