Quando muore la madre Nawal, da tempo chiusa in una specie di autismo, i giovani canadesi Simon e Jeanne – fratello e sorella, gemelli – sembrano chiusi in un rancore per una madre che non ha mai svelato chi era il loro padre. Convocati da un notaio, scoprono che la madre ha lasciato loro due lettere sigillate, ma che potranno essere aperte solo se esaudiranno un compito assegnato dalla genitrice scomparsa: ritrovare non solo il loro padre, ma anche un fratello di cui non avevano mai saputo l’esistenza. La sorpresa e lo choc aumentano lo sconcerto e la rabbia del ragazzo, mentre la sorella sembra vivere un senso di colpa: ma è solo l’inizio di un viaggio nei misteri del passato della madre. Un viaggio pieno di orrore, dolore, segreti. Che li metterà a dura prova i due giovani, fino alla scoperta di una verità quasi insostenibile. Portandoli alle origini mediorientali della donna (il Paese raccontato sembra evidentemente il Libano, anche se non è esplicitato come pure nel dramma teatrale da cui il film è tratto) in una terra dilaniata dagli scontri etnici e religiosi: lei, di origini cristiana ma innamorata di un palestinese, pagherà caro l’aver disobbedito alla famiglia. Da lì si dipana una matassa di violenza e di sangue, di cui Jeanne (che brava la giovane attrice Mélissa Désormeaux-Poulin) cerca di trovare il bandolo. E lo spettatore con loro.

Rispettando la storia, i toni e i temi della pièce teatrale di Wajdi Mouwad, il canadese Denis Villeneuve usa però tutte le tecniche cinematografiche più efficaci (flashback, colpi di scena, tensione e ritmo) per raccontare una storia incredibile e potente, una tragedia che sembra antica e contemporanea al tempo stesso. Ovviamente non vi sveleremo i tanti punti di svolta del film fino alla scoperta finale: basti dire che la visione, per tanti versi impegnativa (anche dal punto di vista emotivo: davvero crudi alcuni snodi della violenta storia alle spalle di Nawal), ripaga la disponibilità dello spettatore grazie a una storia – e una sceneggiatura – incredibile e a una qualità cinematografica notevolissima. Villeneuve ha talento narrativo da vendere, ed è abilissimo nel controllare una materia incandescente. Meritati i tanti riconoscimenti di un film che è una delle sorprese del 2010: presentato alla Mostra di Venezia (stranamente non nel concorso principale, che avrebbe vinto a mani basse), ha ricevuto la nomination agli Oscar 2011 nella categoria dei film in lingua straniera.

Se c’è una pecca del film, che può anche disturbare, è il consueto taglio con cui vengono rappresentate le vicende storiche: se di tutti, cristiani e musulmani, non vengono taciuti i torti e i crimini, quelli dei cristiani – ancora una volta, quando si parla di Libano: si pensi a Valzer con Bashir o Lebanon – sono rappresentati con crudezza e violenza quasi insostenibili (un autobus con donne e bambini bruciati vivi, e fuori un gruppo di falangisti che infieriscono con i mitra con immagini della Madonna…). Senza negare le violenze di cristiani solo a parole, è difficile nascondere delusione per una ricostruzione storica parziale, che non rappresenta in modo equilibrato le violenze in campo (altre sono solo raccontate e non mostrate).

E se il tono generale del film è di condanna di ogni tipo di violenza – una violenza che rovina per sempre l’animo della “donna che canta” dai mille segreti – l’omicidio di un politico cristiano viene rappresentata come un atto di giustizia, quasi da comprendere, senza alcuna pietà per un uomo ucciso davanti ai suoi cari (e con l’inganno). Scelte che non tolgono nulla al valore cinematografico dell’opera, ma che non possono essere sottaciute per completezza di giudizio. Anche se alla fine prevale solo la bellezza commossa che si fa strada attraverso l’orrore. E se anche non si usa la parola “perdono”, la sfida di rompere la catena dell’odio non può che sembrare la più degna conclusione di una traversata nelle zone più oscure della storia e del cuore umano.

Antonio Autieri