L’inizio è quasi horror: vediamo una stanza buia, con i muri decorati con cadaveri, scheletri e teschi, che porta a una biblioteca, e poi alla fine di un corridoio a una porta chiusa; dietro la quale una bambina implora la madre di aprire e liberare lei e il fratello. Una scena che si comprenderà nel finale. In mezzo c’è la storia di Arturo e Alessandro, una coppia omosessuale che sta insieme da più di quindici anni, circondata da amici e vicini di casa con cui passano molto tempo insieme, tra feste – magari quando una coppia si unisce civilmente – e ritrovi conviviali in lunghe e colorate tavolate. Occasioni di amicizia, ma a volte anche di tradimenti occasionali: tra di loro c’è sempre stata “apertura” ad avventure con altri («l’abbiamo fatto anche in tre, e perfino in quattro…»). Ma Arturo (Stefano Accorsi) non sembra più disposto a tollerare tradimenti e disamore; mentre Alessandro (Edoardo Leo) non sopporta più il partner per la rigidità. E ovviamente la passione è ormai svanita; ma anche il rispetto sta vacillando.

La crisi della coppia è messa in stand by dall’arrivo della  comune amica Annamaria, madre single che porta i suoi due bambini Martina e Alessandro, di 9 e 12 anni, per qualche giorno a casa loro: le continue emicranie richiedono alcuni giorni di visite in ospedale, e lei si fida solo di loro. Ma Annamaria in passato ebbe una storia  con Alessandro (fu poi lei a farsi da parte e a farli incontrare): e Arturo sospetta che il secondo figlio di lei – che porta il suo nome – sia in realtà anche del suo compagno. Anche lui però prova affetto per la donna. E quando la crisi tra i due esplode – anche per la scoperta che quello che tradisce da più tempo, e in maniera sistematica, è Arturo – è solo il precipitare delle condizioni di Annamaria a bloccarli: chi può tenere i figli, affezionatissimi ai due “zii”, se non loro? In realtà, un’altra soluzione ci sarebbe: l’anziana madre di lei, la baronessa Muscara, con cui i rapporti sono interrotti da tempo…

Ferzan Ozpetek recupera in La dea fortuna – il titolo fa riferimento a un tempio pagano dei primi secoli avanti Cristo – tanti temi e immagini del suo cinema: da quelli esteriori (il cibo, le tavolate, le feste, i balli) a quelli più intimi, a partire ovviamente dall’omosessualità, e dagli amori più o meno contrastati fino alla paura della malattia e della morte (al centro di Saturno contro e Allacciate le cinture su tutti, ma non solo). Qui, in un film sicuramente più rifinito dei precedenti Rosso Istanbul e Napoli velata e ben recitato da Edoardo Leo e Stefano Accorsi (che interpreta un personaggio che sembra quello de Le fate ignoranti quasi vent’anni dopo) a Jasmine Trinca (ma la sua è la classica interpretazione di una donna che sta male), l’autore calca il pedale sulla crisi e sulle sue conseguenze anche sgradevoli, come le litigate davanti ai bambini (che poi replicano tra loro) o a estranei, con il rinfacciarsi di rinunce e sacrifici (Alessandro fa l’idraulico e porta a casa i soldi “mantenendo” il compagno, Arturo fa solo traduzioni ma pensa di aver dovuto rinunciare a una brillante carriera universitaria in un’altra città), cattiverie e ricordi solo apparentemente rimossi. Niente che non si sia visto già in tanti film tra un uomo e una donna (e anche tra due donne), meno tra due uomini.

A rendere però discutibile il quadro è l’ultima parte del film, in cui la storia inanella alcuni colpi di scena mal preparati dalla narrazione e sembra prendere la decisa strada del “dibattito” d’attualità (chi è meglio che tenga due bambini e ne diventi genitore, una nonna sconosciuta e altezzosa o due uomini che vogliono bene loro da tempo?) e della netta e manicheistica contrapposizione “morale” tra i buoni (i due protagonisti, nonostante le proprie meschinità) e la megera cattiva, baronessa asserragliata in una vecchia villa siciliana  piena di simboli religiosi, anche nella stanza del figlio morto per overdose. La villa dell’inizio del film, quella della porta di un armadio in cui altri due bambini saranno rinchiusi… Una contrapposizione troppo facile e banale, che spreca anche i passaggi più riusciti del film. Che alterna ottime interpretazioni e cliché (un esempio su tutti: il personaggio di Filippo Nigro, ennesimo uomo che in un film italiano è abbastanza giovane ma già con l’Alzheimer; guarda caso l’unico maschio eterosessuale del film…), una regia elegante, un tono narrativo poco incalzante e una sceneggiatura un po’ troppo contorta. Tutti elementi che non disturberanno i fan del regista turco (ormai italianizzato); ma fatalmente destinati a non allargare il suo pubblico.

Antonio Autieri