Lockhart è un giovane broker di una società di Wall Street che viene costretto ad andare in una clinica sulle Alpi svizzere a prendere e riportare in America Roland Penbroke, amministratore delegato della società la cui presenza è indispensabile per concludere una fusione. E che, però, non ha alcuna intenzione di tornare a casa. Lockhart allora arriva nella fantomatica clinica, occupata da vecchi ricchi che sono lì per “la cura”; il giovane protagonista, poi, per via di un incidente con un cervo si vede costretto a rimanere come paziente di questa clinica, e scopre diversi fatti sempre più strani… Ha continue visioni di anguille striscianti, i denti gli iniziano a marcire, il primario della clinica continua a fargli bere gocce dell’acqua della sorgente del posto, una ragazza pallida e spettrale si aggira per le mura di quell’edificio…

Un film stranissimo, decisamente incompreso, La cura dal benessere è stato uno dei grandi flop dell’ultima stagione incassando poco e dividendo la critica. Ha spiazzato il pubblico, ormai abituato a prodotti “stampati in serie” e incapace di lasciarsi stupire da un film imprevedibile, che inizia come un thriller aziendale, prosegue come un giallo psicologico (alla Shutter Island), per poi diventare sempre più un horror e chiudere come un melodramma gotico. Un film che è un impasto di generi diversi e tra questi si divincola, e che forse si potrebbe definire solo come “fantastico” nel senso che Borges da al termine, cioè l’impossibile che sconvolge la realtà del singolo.

La regia è di Gore Verbinski (Pirati dei Caraibi, Rango, The Lone Ranger, il remake americano di The ring), un regista commerciale di grandissima grazia tecnica, che qui firma – se non il suo film migliore – il suo film più complesso. Verbinski (anche autore del soggetto) con l’aiuto di ottimi comparti tecnici (fotografia, scenografia, effetti speciali) costruisce un atmosfera di grande fascino visivo e scene di forte inquietudine (il cervo nel bagno turco, la vasca con le anguille, il ballo finale, il dentista), anche senza rinunciare a passaggi grotteschi e disgustosi. Il regista ha sempre avuto nel suo stile la capacità di ingigantire le cose, di raccontare ogni storia con fare epico, e qui di fatto ingigantisce una storia di film gotico di serie B ad un maestoso e decadente prodotto hollywodiano: un’opera deforme affetta da gigantismo (anche nella non facile durata di due ore e mezza), che ha anche in questa sua deformità il proprio fascino. Un gustoso labirinto post-moderno intessuto di citazioni e rimandi a tutta la cultura romantica (i romanzi di Walpole su tutti) e a tutto il cinema orrorifico (dall’espressionismo alla Hammer). Il risultato è un opera dall’andamento ossessivo e labirintico, in cui lo spettatore è portato a perdersi e a perdere l’intreccio tra diversi corollari, flashback, divagazioni, citazioni, a perdere sempre il centro e a venire sospinto in una situazione certo di malsana inquietudine, ma anche di profonda forza nel descrivere una società apatica e un rapporto d’amore. Si, perché La cura dal benessere nell’avvicinarsi alla fine prende una piega morale, lo spettatore si rende conto che le mostruosità che sta vedendo siamo noi stessi: un’umanità pigra e anaffettiva, incapace di interessarsi a nulla che non sia il proprio benessere.

Riccardo Copreni