Jojo Betzler è un ragazzino di dieci anni che vive con la madre in un paesino della Germania nazista nel 1945. La guerra è agli sgoccioli e mentre il Reich inizia a sfaldarsi il giovane Jojo, fanatico del nazionalsocialismo e indottrinato a dovere, si prepara a unirsi alla Jungvolk, un corpo militare di piccoli soldati pronti a dare la vita per il proprio paese. Jojo condivide i suoi pensieri, le sue paure e il suo entusiasmo con un popolarissimo amico immaginario, ma quando scoprirà che sua madre gli tiene nascosto un terribile segreto, il ragazzino sarà costretto a prendere decisioni difficili e pericolose per garantirsi la sopravvivenza.
«L’unico nazista che mi piace è un nazista morto» diceva il tenente Aldo Raine in Bastardi senza gloria qualche anno fa. Non meno deciso, all’apparenza, è il piccolo Johannes Betzler, figlio della migliore gioventù ariana, biondissimo, bellissimo e disposto ad un duro addestramento per eliminare i nemici del Führer e diventare sua guardia del corpo. Ma al contrario dello spietato tenente, Jojo non è sempre sicuro di potercela fare da solo, così parla in continuazione con un curioso amico immaginario: tra un «Heil Hitler» e l’altro, questo strano figuro (interpretato dal regista stesso), lo sprona a far valere sul campo i sani principi della nazione tedesca, anche se quegli stessi principi sono la causa dell’esplosione che rende il ragazzino quasi invalido e sostanzialmente inutile alla causa.
In questo gioco al rovescio sta già tutta la genialità del nuovo film di Taika Waititi (liberamente ispirato al romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens), che con un coraggio e un talento impressionanti riesce a fare parodia, profonda e intelligentissima, di una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo. Il procedimento parodistico prevede infatti lo stravolgimento, verso il tono del farsesco e dell’assurdo, dei tratti principali di una struttura, che in Jojo Rabbit vengono attinti direttamente dall’ideologia nazista e dalle forme più tipiche dei film sul tema: l’impianto narrativo non diverge infatti da tanti altri film sul nazismo, con tanto di ufficiali Gestapo a fare ispezioni in casa, antisemitismo e bombardamenti nelle città. Ma attenzione, perché nell’immediata semplicità della vicenda si nasconde tutto un lavoro, certosino e ispirato, sulla resa scenica della storia e sui modi del suo sviluppo. Perciò le strutture dello Stato, dell’impianto militare e dell’indottrinamento psicologico delle giovani generazioni vengono spezzate a forza di gesti, musiche, dialoghi e persino inflessioni linguistiche assolutamente geniali: il nostro giovane protagonista ha infatti qualche difficoltà a pronunciare Hitler, la sua dedizione alla causa barcolla davanti a un povero coniglio che si vuole morto come dimostrazione di spietatezza; e in fondo anche nello stesso appellativo di «coniglio», che Jojo si guadagna a causa della sua presunta debolezza, egli riscoprirà le tante qualità di quell’animale che, silenziosamente e nell’ombra, fa ciò che può per se e per gli altri.
Tutti i protagonisti principali si muovono dunque verso una necessaria rivelazione di ciò che sulle prime battute era rimasto celato, e la problematicità dei loro caratteri si costruisce su registri che vanno dall’apertamente demenziale al dramma più puro senza alcuna forzatura: il capitano Klenzendorf (magnetico Sam Rockwell) è un reietto del corpo militare nazista sin dalla sua prima apparizione, e la sua diversità non passa soltanto da battute caustiche e affilatissime, ma anche dalla drammaticità delle sue azioni e dalla gratuità di alcuni gesti inaspettati; tra l’ombra e la luce si muove anche la splendida Scarlett Johansson nei panni di Rosie Betzler, donna e madre che «fa ciò che può» e nel celebrare la vita sopra ogni altra cosa ha la pazienza di attendere che l’umanità del figlio si faccia strada verso la luce.
Al di là delle abbondanti risate, Jojo Rabbit è dunque anche un film tenerissimo e insieme sorprendentemente duro, come di chi sappia che per arrivare ad essere ciò che si è ci si deve lasciare anche tante macerie alle spalle. Il volto di Jojo (il sorprendente debuttante Roman Griffin Davis) porta i segni di questo vissuto, e le sfumature di colore della fotografia seguono alla perfezione l’oscillazione dei toni, dal melanconico del dramma alla brillantezza della commedia “à la Wes Anderson”. Jojo vive poi una versione assolutamente personale di questa quotidianità giocata tra l’assurdo e il tragico, fatta di un immaginario infantile che vede tutto attraverso uno sguardo diretto dal basso verso l’alto: il suo essere piccolo si confronta infatti con l’enormità di ciò che lo circonda, la dura realtà che egli cerca di dominare con una fantasia nella quale si manifesta tanto la crudeltà dell’ideologia di cui è preda, quanto l’educazione al rispetto e al coraggio che arriva direttamente dal cuore della relazione con la madre. Decidere a quale di queste due forze dare spazio vuol dire scegliersi un destino, e talvolta sceglierlo per chi ci sta intorno: sarà infatti il rapporto tra il piccolo Jojo e un’indesiderata ospite della sua casa (interpretata dalla sempre più talentuosa Thomasin McKenzie, già notevole in Senza lasciare traccia) a giocare un ruolo fondamentale nelle scelte dell’aspirante nazista, che pian piano imparerà l’arte del discernimento e della progressiva – e anch’essa parodica – distruzione dei propri miti.
L’opera di Waititi su questo piano è davvero dotata di un ampio respiro, perché alla decostruzione dell’ideologia la scrittura fa corrispondere il capovolgimento dei cliché tipici dei film su temi affini: facile sarebbe stato virare verso quel moralismo ricattatorio e asfissiante che spesso si abbatte sulle opere dedicate alla storia del nazismo e delle sue vittime, più arduo invece modulare una costruzione equilibrata del protagonista, che davvero qui sulle sue gambe arriva alla fine del percorso e della sua storia, portando con sé lo spettatore: il climax finale è commovente, in Jojo si convogliano e tornano a vita nuova tutte le istanze di libertà, amore e compassione che hanno animato la varia umanità della vicenda. Quasi a volerci dire che varcare la soglia che dall’ombra conduce alla luce è in sostanza un atto di fiducia, una dichiarazione di amore verso quell’eredità che altri ci hanno trasmesso, e che tocca a noi riportare nel mondo.
Maria Letizia Cilea