“Jarhead”, testa di barattolo, è il soprannome dato ai soldati americani del corpo dei marines, per il loro taglio di capelli, ma anche per indicare ironicamente una testa vuota. Tratto dal romanzo autobiografico di Anthony Swofford, il film fin dalle prime immagini del duro addestramento della recluta Swofford porta a farsi qualche domanda sui motivi che spingono un giovane all’arruolamento. Il protagonista non sembra avere alcuna inclinazione particolare per la vita militare, né desiderio di fare carriera o di sfuggire a qualche aspetto insopportabile della vita civile. Semplicemente è lì, come potrebbe essere da qualsiasi altra parte, senza particolari abilità che non essere particolarmente veloce nello smontare e rimontare un fucile e avere un’ottima mira, garanzia per diventare un cecchino. Né sembrano molto diversi da lui i suoi commilitoni: ovviamente c’è chi è più stupido, c’è chi si fa qualche domanda più degli altri (e per questo viene deriso), c’è chi, banalmente, è lì perché sembra non lo volessero da nessun’altra parte. Finito l’addestramento e annunciata la partenza per il Kuwait occupato da Saddam, i soldati (e gli spettatori) si aspettano di entrare “nel vivo della battaglia”. Ma, con delusione degli uni e degli altri, non succede niente: i giorni si succedono gli uni agli altri e la vita nel deserto si riduce a una serie di tentativi per combattere la noia, alcuni più riusciti, altri meno. La guerra è cambiata, i cecchini e i fanti sono stati sostituiti dai bombardamenti, se non precisi di certo massicci, e a far le spese di questa approssimazione non sono solo i nemici (e le immagini di quanto ciò venga a costare sono la cosa più bella del film). Swofford (Jake Gyllenhaal) si aggira nel deserto tra lo stupito e lo scanzonato, ma sembra capire l’assurdità della situazione e al ritorno lascia la divisa e sembra rifarsi una vita normale. Altri, come il suo amico Troy (Peter Saasgard), alla ricerca disperata di un senso qualsiasi, non saranno così fortunati. “Jarhead”, lascia spiazzati, come osservava anche qualche critico all’uscita della proiezione, lamentandosi di non capire se fosse un film militarista o anti, e quindi di non poterlo esaltare o stroncare; come si fa a prendersela con dei soldati così evidentemente poco marziali? Ma d’altra parte, non scalpitano anche loro per entrare in battaglia e “fargliela pagare” (a chi o per che cosa non sempre è chiaro)? E non sono tutti esaltati nel guardare la scena dell’attacco in elicottero di “Apocalypse Now”? Forse la cosa migliore del film è proprio il senso di inutilità che fastidiosamente rimane attaccato a chi guarda. C’era proprio bisogno di tutto questo spiegamento di forze? E soprattutto, visto che è servito a ben poco, non poteva servire come esperienza nei successivi interventi in Medio Oriente? Domande cui sembra più facile, ora che abbiamo visto la faccia di Swofford, dare una risposta.,Beppe Musicco

Jarhead
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