Assomiglia molto a The Aviator il capolavoro mancato di Martin Scorsese, J. Edgar, il capolavoro mancato di Clint Eastwood. Stesse alte ambizioni, quelle di raccontare un'epoca nel cono d'ombra di un personaggio, stessa cura dei dettagli, stesso perfezionismo scenico, stesso coltissimo gusto cinefilo, un superbo cast d'attori. E stessi problemi: troppo materiale da utilizzare, una narrazione non sempre equilibrata e, nel caso di J. Edgar, una mancanza di pathos e una sceneggiatura che non decide su cosa puntare. C'è da dire che il progetto in cui l'ottantunenne regista californiano si era imbarcato era uno di quelli quasi impossibili: il biopic di un vero e proprio dominus della vita politica e civile di quasi cinquant'anni d'America, John Edgar Hoover, l'ambiguo e leggendario inventore dell'FBI che prestò servizio sotto otto presidenti americani. Una figura a metà tra leggenda e storia, problematico nella vita privata e nelle relazioni sociali (simile anche in questo al carismatico e folle Howard Hughes di The Aviator). Progetto difficile per l'antipatia e il mistero che ha sempre circondato Hoover e il suo lavoro. Eastwood si avvicina al personaggio secondo le regole stilistiche e narrative del biopic tradizionale: la voce fuori campo di Hoover alle prese con la dettatura della propria biografia ufficiale commenta e rievoca le vicende, le amplifica, ci fantastica anche un po' su. Insomma, costruisce intorno a sé un alone di leggenda che era tipico del personaggio e che Eastwood sfrutta per avvicinarsi ai toni di uno dei western che ama di più: il crepuscolare L'uomo che uccise Liberty Valance con cui John Ford rievocava, mitizzandola, l'epopea della Frontiera. Non è il solo riferimento cinefilo in un film colto: la splendida fotografia di Tom Stern rievoca la stagione del noir, e non mancano reminiscenze dai grandi film interpretati da James Cagney, tra cui il memorabile Nemico pubblico di Wellman. ,La nota dolente sta nella sceneggiatura di Dustin Lance Black (già premio Oscar per Milk) che non è equilibrata. Non lo è da un punto di vista narrativo, con troppi flashback intersecantisi e con la scelta, assai discutibile, di tenere come filo rosso la voce guida del vecchio Hoover che appesantisce la narrazione. La gestione dei registri è un po' faticosa: il tono si fa troppo melodrammatico quando la macchina da presa stringe sull'omosessualità più o meno accettata dal protagonista (e scade nella scena madre quando a Hoover si mette in bocca una frase di Oscar Wilde) e invece diventa freddo e didascalico quando si indaga sul torbido e sulle ossessioni che agitavano il cuore del vecchio uomo di potere. Si giustappongono molte situazioni intriganti e intricate, senza un reale approfondimento e senza una reale scelta: la politica americana innanzitutto, con lo scandalo Kennedy, il rapporto con Bob Kennedy, l'autentica ossessione contro Martin Luther King, l'attentato di Dallas fino alla presa del potere da parte di Richard Nixon. E' un peccato, anche della regia che non riesce a infondere nello spettatore un minimo di passione per il personaggio e nemmeno riesce a trasmettere quella commozione autentica di fronte alla caduta dell'innocente di cui Clint è maestro (come mostra bene l'inserto lungo del rapimento Lindbergh e il suo epilogo tragico). Tutto è detto e detto con cura ed eleganza: il rapporto ambiguo con la madre (un'ottima Judi Dench), la relazione di Hoover con la sua segretaria, i pranzi e le cene ricorrenti, le vacanze insieme all'amico e amante Clyde Tolson (interpretato dal giovane Armie Hammer, il migliore del cast, più di Di Caprio, danneggiato dal doppiaggio italiano). Tutto è al posto giusto ma tutto è purtroppo ingessato: l'amore gay di Hoover non si sfila dal cliché di tanti film del genere e nella sequenza centrale, quella in hotel, si sfiora il patetismo e si è ben lontani dalla gestione discreta degli affetti che Cint è stato capace di tratteggiare ne I ponti di Madison County; il racconto delle ambizioni viscerali di Hoover, l'invenzione del metodo scientifico dell'indagine e al tempo stesso la spettacolarizzazione degli arresti sono eventi giustapposti, lasciati alla curiosità e all'attenzione dello spettatore, ma non sono lo spunto per un racconto nel profondo di un uomo ambiguo e coraggioso, solo e popolare, in lotta più che con i comunisti, i criminali e i politici, con se stesso. Tutto è al posto giusto, come quei soprammobili quelle statue e quelle fotografie nel finale in quella che forse la sequenza più bella del film, un'altra citazione elegante del biopic per eccellenza, Quarto potere, e che forse condensa il senso ultimo di un film irrisolto: più che l'amore, le gesta e il potere poté la morte, vera se non unica protagonista degli ultimi film del grande Clint.,Simone Fortunato

J. Edgar
I successi e il declino del padre del FBI, J. Edgar Hoover.