La bella vita a cui si era abituato Tony Stark (Robert Downey Jr.) non dura molto e, dopo aver confessato di essere Iron Man e aver portato la pace anche nelle zone più burrascose del Medio Oriente, deve affrontare nuovi nemici: il primo è una commissione governativa che vuole l’armatura del super eroe in dotazione all’esercito; il secondo è Ivan Vanko, scienziato russo che si vuole vendicare della famiglia Stark; in ultimo c’è il palladio, elemento cardine del “reattore” nel petto di Tony Stark che però lo sta avvelenando. Le bizzarre abitudini del protagonista non lo aiutano a tenere la situazione sotto controllo, portandolo a uno scontro anche con la signorina Pepper Potts, fedele assistente che si vede ben presto addossata di tutto il peso dell’industria Stark.

Squadra che vince non si cambia e, dopo il successo del precedente capitolo, questo nuovo Iron Man mantiene il nucleo del cast originale espandendolo con nuove entrate: Sam Rockwell perfetto nella parte dell’avido (e subdolo) antagonista di Tony Stark e delle sue Industries, la conturbante e misteriosa Scarlett Johannson che dimostra capacità anche nei ruoli d’azione e un Mickey Rourke che ha il physic du role del cattivo (un po’ meno quello dello scienziato). L’attore/regista Jon Favreau non si perde in fronzoli e orpelli di computer grafica, ma confeziona un prodotto pulito e avvincente nel quale trovano spazio azione e commedia, testosterone e sentimenti, nonostante quest’ultimi vengano nascosti sotto la dura scorza che riveste i personaggi: Tony Stark brucia come una cometa sotto la spinta di un destino apparentemente segnato (avvelenamento da palladio) e di un ego insaziabile, Pepper Potts (Paltrow) raccoglie i cocci e dirige l’azienda spinta più da affetto che da senso del dovere e trova spazio anche un padre freddo e distaccato, il cui lascito per il figlio è molto più importante dei suoi sterili rimproveri.

Iron Man 2 segna un nuovo traguardo per gli adattamenti da fumetti perché rilegge un personaggio, nato quarant’anni fa, in chiave moderna senza appesantire la messa in scena con la scomoda eredità fumettistica (vedesi Spirit di Frank Miller), sfrutta l’appeal e la bravura degli attori (Downey Jr., sempre più somigliante all’Al Pacino di trent’anni fa, sopra tutti) per accattivare il pubblico e sorregge gli ottimi effetti speciali con una sceneggiatura altrettanto esplosiva in cui gli scambi di battuta (l’ironia dei dialoghi è una delle cose più riuscite) non perdono mai di mordente nemmeno dopo due ore di film.

Andrea Cassina