Il film che riporta Gabriele Salvatores ai suoi migliori livelli è tratto dall’omonimo romanzo breve di Niccolò Ammaniti. Romanzo di formazione: il piccolo Michele, nella caldissima estate del 1978, scopre un coetaneo – Filippo – dentro una buca: prima lo crede morto, poi pazzo e pericoloso, per scoprire infine che è stato rapito da una banda di cui fa parte anche suo padre. In un crescendo di scoperte dolorose e angoscianti, che portano a perdere la sua innocenza, come si dice in genere, o quanto meno a scoprire di quanto male siano capaci gli adulti (e in particolare i propri genitori).

Michele – ed è solo uno dei tanti tratti felici nel film di Salvatores – non è un bambino come gli altri: è più sveglio, più coraggioso (ma quell’«Io non ho paura di niente», che dice nel libro per farsi coraggio di fronte a un pericolo, è segno di una minaccia misteriosa che spaventa), più profondo e generoso degli altri amici, con cui forma una banda soggiogata dall’insopportabile Teschio. Di Michele scopriamo a poco poco le rabbie silenziose, quando i genitori gli infliggono una punizione, e gli altrettanto improvvisi entusiasmi (con pochi tocchi il regista ci illustra il suo protagonista, paradigma dell’età dell’infanzia), le ingenue supposizioni alla scoperta del bambino chiuso nella grotta sotterranea (magari un fratello nascosto pietosamente alla vista del mondo a causa della sua pazzia) e la sua tenacia nel voler capire cosa stia succedendo. Così che quando tutto si sta chiarendo, non potrà che chiedere al padre: «Ma perché l’avete messo lì dentro? Non lo riesco a capire». Ottenendo in cambio una risposta imbarazzata e inadeguata («Il mondo è sbagliato»), che segna il confine tra un bambino in cerca di verità e un adulto che non sa nemmeno prendersi la responsabilità del proprio male.

Tra i pregi del film, oltre a una perfetta parlata pugliese “naturalistica”, la misurata bravura di tutti gli interpreti, dagli eccezionali ragazzini esordienti ai poco conosciuti caratteristi come Dino Abbrescia e Riccardo Zinna, fino a un sorprendente Diego Abatantuono (e anche se al suo personaggio, l’uomo venuto da lontano a coordinare il rapimento, sono stati tolti rispetto al libro quei segreti del passato e quei tocchi di umanità che sulla pagina scritta lo arricchivano di ben altro spessore). Io non ho paura restituisce Gabriele Salvatores al miglior cinema italiano, dopo una serie di film deludenti come Nirvana, Denti o Amnèsia (ma se vogliamo ricordare i suoi ultimi titoli impeccabili, dobbiamo risalire a Turnè e Mediterraneo). Lasciando la sceneggiatura in mano ad altri (lo stesso scrittore Ammaniti e Francesca Marciano), il regista milanese conferma un sospetto: che abbandonando le velleità da autore (quando ha voluto scrivere i propri film da solo, ha cominciato a perdersi) torni ad essere l’ottimo direttore di attori e l’ispirato organizzatore di scene e immagini che sapevamo. Oltre tutto, servito da un testo forte narrativamente, che già sulla carta si faceva apprezzare per le sue potenziali qualità “visive”.

E infatti non si può parlare di un film del genere senza parlare del libro, notevole nel panorama letterario italiano contemporaneo. Chi lo ha amato troverà, come sempre, piccoli e grandi “tagli” (a uno, il più doloroso, abbiamo già accennato) e rimpiangerà quell’arguzia del narratore Michele, in prima persona, che rendeva caratteristico il romanzo. Il finale del film, inoltre, è diverso, più aperto, e forse anche più commovente, ma forse il libro aveva una chiusura secca da grande scrittore. Però l’opera di Ammaniti rischiava il cinismo (in fondo, è una storia raccontata vent’anni dopo da un adulto che ricorda quando perdette fiducia nel mondo dei grandi, e nei genitori in particolare) e, per essere un libro che parla di ragazzi, “ospitava” anche un’incomprensibile e inutile bestemmia. Salvatores “felicemente” toglie qualcosa (con la complicità, ricordiamolo, di Ammaniti che lo ha sceneggiato) e regala anche un respiro forse più facile ma anche più aperto, più emozionante, con più speranza. In fondo alla fine, prevale un abbraccio tra un padre, che pure ha sbagliato gravemente, e un figlio che guarda sorridente a un amico sorprendente e inatteso.

Antonio Autieri