Ci sono film (magari opere anche di registi capaci e famosi) che già dopo pochi anni mostrano difetti che a una prima visione erano sembrati irrilevanti, e che invece denotano limiti che li rendono vecchi e senza più alcun fascino. Al contrario esistono film che, pur perfettamente inseriti nel loro contesto spazio-temporale, mantengono nel tempo la loro originalità diventando un punto di riferimento imprescindibile. Questo è il caso di Io e Annie, scritto diretto e interpretato da Woody Allen, un film che non è certo passato nell’indifferenza alla sua prima uscita, avendo vinto ben quattro Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, attrice protagonista per la splendida Diane Keaton (e Allen era stato nominato anche come miglior attore). Non a caso periodicamente esce nuovamente al cinema: come nella primavera 2018, grazie alla riedizione della Cineteca di Bologna.

Alvy Singer parla della sua vita sentimentale, della sua famiglia, del suo lavoro, raccontando e spesso rivolgendosi direttamente al pubblico (scelta rischiosissima, ma qui perfettamente riuscita), trasportandoci nel suo mondo di complessi, frustrazioni, sensi di colpa ereditati dalla sua famiglia e dalle origini ebraiche, ma anche di trovate inaspettate, battute divertentissime, scene di grande delicatezza e umanità. Una storia, quella tra il complessato comico e scrittore cresciuto nel sobborgo newyorchese di Coney Island e la giovane Annie Hall del Midwest che sogna di diventare una cantante nei club della città, che ha fatto ridere e intenerire ormai due generazioni di spettatori. Visti con gli occhi di Hollywood, i protagonisti non hanno niente di particolare. Non sono né ricchi, né famosi (del lavoro di Alvy usufruiscono più altri di lui), e le loro storie non hanno niente di sensazionale. Ma lo stile del racconto, e moltissime scene (la cottura dell’astice, il tentativo di uccidere un ragno, lo strepitoso inserimento del linguista Marshall McLuhan nella coda per fare il biglietto al cinema) rendono come pochi il talento di Woody Allen come affabulatore e le sue capacità di trasportare tutto sul grande schermo. Non è una storia melodrammatica, e non c’è neanche un classico happy ending, ma raramente capiterà di rimanere così affezionati a due bizzarri protagonisti come Alvy e Annie.

Beppe Musicco