Film solo a tratti interessante. È un film di affetti più che di effetti, nonostante il regista Offenstein giochi le sue carte soprattutto sull'impatto visivo, girando a pelo d'acqua e per gran parte ambientando la sua storia nei pochi metri quadri dell'imbarcazione del protagonista. Affetti, appunto. Quelli lasciati a casa da Yann (il solito, efficace François Cluzet che si sentirebbe a suo agio anche in un bicchier d'acqua), ovvero la figlioletta che vive con una certa difficoltà a scuola la notorietà del papà e la nuova compagna, preoccupata per la folle impresa del velista. Quelli incontrati da Yann durante la regata: il ragazzino africano, salito sulla barca di nascosto e, almeno per un bel tratto di percorso, compagno di viaggio decisamente sgradito anche per una possibile squalifica dalla gara, la velista naufraga in cui si imbatte a metà gara; l'intervento, per certi versi risolutivo di Guillame Canet, velista pure lui ma obbligato per un incidente a seguire l'impresa di Yann (cui ha lasiato la propria imbarcazione) dal quartier generale in Francia. ,Direttore della fotografia di molti film francesi alcuni dei quali arrivati anche in Italia (Non dirlo a nessuno, Piccole bugie tra amici), Offenstein ha senso dell'inquadratura e spiccata attenzione per la cornice paesaggistica, per l'uso dei colori e degli ambienti: da questo punto di vista è davvero mirabile il taglio realistico con cui viene raccontata la storia di Yann “prigioniero” della sua barca. Lo spettatore sobbalzerà con Cluzet sulla nave e, il mare, sempre presente con i suoi colori diversi, il suo rumore continuo e, a tratti, inquietante, il suo umore capriccioso è in effetti è il vero, forse unico protagonista della storia. Il problema è che non sempre un buon fotografo è anche regista capace. Il film scricchiola in più momenti: per la prevedibilità di una vicenda che, sin dal primo incontro con il migrante, appare telefonatissima; per la caratterizzazione mediocre dei personaggi di contorno (i famigliari di Yann ma anche il sottoutilizzato personaggio di Canet, davvero pochissima cosa ai fini della narrazione); per l'inverosimiglianza di molte svolte che paiono costruite a tavolino per scongiurare un'eccessiva calma piatta della narrazione. È un problema senz'altro di sceneggiatura (dello stesso Offenstein), più attenta nel rendere verosimile la vita in barca a vela che a rendere veri ed empatici i personaggi in gioco; e anche di regia, incapace di cambiar ritmo alla vicenda (come nella sequenza della malattia occorsa al ragazzo e giocata malissimo), decisamente monocorde nel raccontare il rapporto tra i due che in effetti non decolla mai, stretto tra un certo pietismo e eccessivi didascalismi. Alla fine rimane pochissimo impresso: poco dell'amicizia tra i due protagonisti, praticamente nulla della regata da record con cui Yann ha girato il mondo in circostanze impossibili e che, a beneficio del pubblico, sarebbe stato importante raccontare con quel minimo di epos come un'impresa di tale portata avrebbe meritato. ,Simon Fortunato,